4 luglio 2019

da La sonata a Kreutzer – Lev Toltoj

da La sonata a Kreutzer – Lev Toltoj

«Sì, è successo, e non molto tempo prima del fatto. Vivevamo una specie di periodo di armistizio e non c’erano motivi per interromperlo; improvvisamente si comincia un discorso sul fatto che un certo cane, a una mostra, aveva vinto una medaglia, dico io. Lei sostiene: “Non una medaglia, ma un attestato di merito”. Comincia il litigio. Si comincia a saltare da un argomento all’altro, cominciano i rimproveri: “Questo lo si sa da molto, è sempre stato così, tu hai detto…”, “No, non l’ho detto!”, “Allora io mentirei...!”. Senti che sta avviandosi quell’assurdo litigio durante il quale vorresti uccidere te stesso o lei. Sai che sta avviandosi e ne hai paura come del fuoco, vorresti trattenerti ma la rabbia divampa in tutto il tuo essere. Lei si trova nella stessa, se non peggiore situa-zione: fraintende volutamente ogni tua parola, attribuendole un falso significato; ogni sua parola è imbevuta di veleno; non appena si rende conto che lì ti fa male, lì colpisce. Ancora, sempre di più. Grido: “Stai zitta!” o qualcosa di simile. Lei scappa via dalla stanza, va dai bambini. Io cerco di trattenerla per spiegarmi e giustificarmi e le afferro un braccio, lei si piega e si fa male e urla: “Bambini, il papà mi picchia!”. Io grido: “Non mentire”; “Non è la prima volta”, grida lei, o qualcosa di simile. I bambini le corrono incontro. Lei li rassicura. Io dico: “Non fingere!”, lei risponde: “Perte tutto è una finzione, tu uccideresti un uomo e poi gli diresti di non fingere. Ora ti ho capito. È questo che vuoi!”; “Se almeno morissi!”, grido io. Mi ricordo come mi spaventarono queste terribili parole. Non pensavo che avrei mai potuto dire queste terribili, brutali parole, e mi meravigliavo che fossero uscite da me. Grido queste terribili parole e corro nello studio, mi siedo e comincio a fumare. Sento che lei va in anticamera e si prepara a uscire. Le chiedo dove va. Non mi risponde. “Che vada al diavolo”, dico a me stesso; torno nello studio e di nuovo mi siedo a fumare. Mi vengono in mente migliaia di piani diversi su come vendicarmi di lei, come liberarmi di lei e come realizzare tutto ciò facendo in modo che sembri non sia successo nulla. Penso e fumo, fumo, fumo. Penso di abbandonarla, di nascondermi, di andare in America. Arrivo al punto di sognare di liberarmi di lei e sogno come ciò sarebbe bello, come trovare un’altra donna, magnifica, completamente diversa. Me ne sarei liberato perché sarebbe morta o avrei divorziato e cerco di inventarmi come farlo. Mi accorgo che sono fuori strada, non sto pensando ciò che dovrei, ma per non vedere che non sto pensando a ciò che devo, continuo a fumare.
La vita in casa continua. Arriva la governante e chiede “Dov’è Madame? Quando torna?”. Il maggiordomo chiede se deve servire il tè. Vado in sala da pranzo: i bambini, soprattutto Liza, la maggiore, che già capisce, mi guardano con aria interrogativa e non benevola. Beviamo il tè in silenzio. Lei non è ancora tornata. Passa tutta la sera e lei non è ancora tornata; due sentimenti si alternano nel mio animo: di odio nei suoi confronti perché con la sua assenza angosciava me e i bambini, e poi si sarebbe risolto tutto con il suo ritorno; di paura che lei non ritorni e faccia qualcosa contro se stessa. Sarei andato a cercarla. Ma dove? Dalla sorella? Ma è stupido arrivare là e chiedere. Che Dio la benedica, se vuole tormentare qualcuno, tormenti se stessa. Era questo ciò che lei si aspettava e la volta successiva sarebbe stato anche peggio. E se non fosse dalla sorella ma stesse per commettere o avesse già commesso un atto contro di sé? Le undici, mezzanotte. Non vado a letto, sarebbe stupido rimanere là da solo e aspettare. Vorrei fare qualcosa, scrivere delle lettere, leggere, non riesco a fare nulla. Me ne sto seduto nello studio, soffro, mi innervosisco e resto in ascolto. Le tre, le quattro... non è ancora tornata. Verso mattina mi addormento. Mi risveglio, ma lei non c’è.
In casa tutto procede come al solito, ma con un certo imbarazzo; tutti mi guardano interrogativamente e con rimprovero, supponendo che sia tutta colpa mia. Dentro di me c’è la solita lotta: irritazione perché lei mi fa star male, e apprensione per lei.
Verso le undici arriva sua sorella, mandata da lei.
Si ricomincia come al solito: “È in uno stato terribile. Ma che cosa succede?”, “Ma non è successo nulla!”. Racconto quanto sia impossibile il suo carattere, e dico di non aver fatto nulla.
“Sì, ma non si può andare avanti così”, dice la sorella.
“Dipende tutto da lei, non da me. – dico – Io non farò mai il primo passo. Se vuole divorziare, divorziamo”.
Mia cognata se ne va senza aver concluso nulla. Io orgogliosamente avevo detto, parlando con lei, che non avrei fatto il primo passo, ma non appena se ne fu andata ed io uscii e vidi i bambini impauriti e spaventati, mi sentii già pronto a fare il primo passo. Sarei stato felice di farlo, ma non sapevo come. Di nuovo comincio a camminare, fumare, bere vodka e vino a colazione e raggiungo ciò che inconsciamente desidero: non vedo la stupidità, la vigliaccheria della mia situazione.
Verso le tre lei ritorna. Incontrandomi non dice niente. Io mi immagino che si sia calmata e prendo a raccontare di come mi sono sentito provocare dai suoi rimproveri. Lei, senza cambiare l’espressione dura e severa del volto, mi dice che non è tornata per chiarire il tutto, ma per prendere i bambini perché non possiamo più vivere insieme. Io comincio a dire che non sono io il colpevole, che lei mi ha allontanato da sé. Lei mi guarda in modo duro, solenne, e poi dice: “Non dire più niente, te ne pentiresti”.
Rispondo che non sopporto le commedie. Allora lei urla qualcosa che non afferro e corre in camera sua. Dietro di lei risuona il rumore della chiave: si è chiusa dentro. Busso, non c’è risposta, e allora, adirato, me ne vado. Dopo mezz’ora Liza arriva correndo e in lacrime.
“Cosa? È successo qualcosa?”
“Non si sente la mamma”.
Andiamo. Tiro la porta con tutte le mie forze. La serratura non è chiusa bene e tutte e due i battenti si aprono. Mi avvicino al letto. Lei giace sul letto in modo scomposto, vestita con una gonna e gli stivaletti alti, priva di sensi. Sul comodino c’è una fialetta vuota, di oppio. La facciamo rinvenire. Altre lacrime e, alla fine, la pace. Ma non è pace: nell’animo di ognuno c’è quell’antico rancore reciproco a cui si aggiunge il risentimento del male che aveva fatto quel litigio, la cui colpa ognuno attribuisce completamente all’altro. Ma bisogna pur metter fine a tutto ciò e la vita riprende come prima. Questi litigi, e anche peggiori, capitavano continuamente, una volta alla settimana, al mese, al giorno. Era sempre lo stesso. In una occasione mi ero procurato il passaporto internazionale: il litigio durava da due giorni; ma poi vi fu ancora una mezza spiegazione, una mezza riappacificazione e io rimasi».

Traduzione di Anna Maria Capponi Glouchtchenko

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