Gli spaghetti
Sì, nel 1912 erano più panorami di Napoli gli spaghetti che il Vesuvio e
il mare. L’avvocatuccio rincasava portandoli sotto il braccio, nel
fascio di carta bollata; ogni vicolo pareva un refettorio, pieno di
creature col piatto in grembo sulle soglie dei “bassi” nelle piazzette
ai Ventaglieri, a Sant’Eligio, al Cavone, a Foria, ai Tribunali, a Port’Alba
si vendevano spaghetti anche cotti, c’erano giganteschi fornelli
all’aperto con pentole che avrebbero potuto contenere il Louvre; «un
due!», «un tre!» gridavano i garzoni porgendo i piatti al cuoco e
sottintendendo porzioni da due o da tre soldi: chi non poteva saziarsi
di spaghetti ne inghiottiva il fumo e gli tornavano egualmente le forze;
gli avventori mangiavano col piatto bollente in una mano e la forchetta
di stagno nell’altra, addossati agli antichi muri e vedendo palpitare
le ombre, al di là del fuoco e dei lumi, come una cara gonna in attesa.
Che semplice luogo, che facile gente. Spaghetti o non spaghetti era il
dilemma. Le innumerevoli alternative odierne ci straziano, invece,
rendono fatale e certo l’errore. Bisogna riaccostarsi agli spaghetti con
la pazienza e l’affetto di un tempo. Usciamo dalle astruse cattedrali
delle aspirazioni moderne, piene di simboli e di minacce e di paura;
restituiamoci senza problemi alla mite realtà degli spaghetti. Essi sono
forse l’unica nostra domanda a cui Dio può rispondere ed ha sempre
risposto; sì spaghetti, no spaghetti.
«Ne produciamo milleduecento quintali al giorno» disse il mio amico ligure.
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