da Treno di panna - Andrea De Carlo
Guardavo i negozi italiani di abiti che si affacciavano sulla strada in forma di immense scatole di confetti. C'erano gioiellerie come ambasciate ottocentesche: con pilastri e marmi sulle facciate, tende di velluto negli atrii. Altri edifici erano inconsistenti, fragili; bianchi e squadrati. Era un giorno grigio, di luce opaca diffusa, di bassa pressione. Andavo dietro a Tracy e respiravo con una certa difficoltà; guardavo in giro in preda a una strana ansia morbosa.
Tracy camminava davanti a me, veloce; marcava il passo con un'oscillazione delle braccia. Cercava di trascinarmi dove voleva anelare, senza curarsi del mio interesse per il paesaggio. L'ho seguita per qualche minuto in atteggiamento di pecora condotta in giro: svogliato, lento agli incroci. A un certo punto il suo modo di camminare e strattonarmi avanti mi è diventato insopportabile. All'altezza di un negozio di orologi le ho detto che potevamo vederci alla macchina più tardi. Lei mi ha guardato alla svelta; ha detto «Va bene, va bene».
Sono tornato verso la strada che avevo visto all'inizio.
Guardavo la gente davanti e dietro alle vetrine; le grandi macchine che passavano raso al marciapiede e si fermavano per qualche minuto senza aprire le portiere. Fermo a un angolo ho osservato una signora mentre parcheggiava una Rolls Royce grigia in uno spazio ristretto tra due altre automobili. Cercavo di registrare i suoi gesti, il suo modo di inclinare la testa per vedere nello specchio retrovisore chi guidava dietro di lei e chi invece arrivava lungo il marciapiede. C'era una connessione tra i vestiti che aveva, la lentezza dei suoi movimenti, i riflessi sui vetri della sua macchina.
Guardavo gli oggetti esposti nelle vetrine:mi colpiva la loro consistenza, la loro densità nella luce.
Guardavo ragazze che camminavano veloci, con calzoni larghi chiusi alle caviglie e guance arrossate; signore di mezz'età con occhiali pesanti e sandali sottili; uomini con pance e abbronzature di diverso spessore. Non riuscivo bene a capire chi faceva davvero parte della scena, e chi invece era ai margini e si limitava a indossare modi di fare e abiti di ruolo. Quasi tutti avevano espressioni che li legavano al posto, alle sfumature del posto. Pensavo che alcuni dovevano essere in realtà commessi di negozio, o segretarie ad alto livello, o ragazzine dei suburbi; ma avevano assorbito abbastanza dallo scenario da assumerne i caratteri. Si erano rivoltolati nella brillantezza abbastanza a lungo da divenire
brillanti a loro volta.
Dopo qualche minuto il ciclo si è incrinato e aperto; nel giro di poco era azzurro. La strada ha acquistato contrasto di colpo. Dal punto dov'ero i dettagli venivano fuori tridimensionali,
brillanti. Cercavo di assorbirli più che potevo; di inalarli, quasi.
[…]
Ron e Tracy erano come due giovani squali insicuri, rissosi, frenetici attorno al telefono ogni volta che squillava. Erano sempre sul chi vive, attenti a non tradirsi o dimostrarsi troppo ingenui. Vedevano Los Angeles come una pista a ostacoli, e ogni salto come l’ultimo della serie; suddividevano il numero sconfinato di salti necessari ad arrivare in generi e sottogeneri. Giravano in circolo alla ricerca di frammenti di successo da divorare subito per crescere a giovani squali di maggiore dimensione. Da ogni minuto episodio si aspettavano conseguenze di qualche importanza per le loro vite. In certi momenti di frenesia totale i numeri di telefono sulle agendine non bastavano a calmare la loro fame di occasioni o spunti per esporsi e farsi conoscere in qualche modo.
[…]
Tutti i camerieri si odiavano, cercavano di mettersi in difficoltà l'un l'altro. Creavano spazi attorno a un errore per farlo risaltare il più possibile, amplificarlo oltre misura. Rimarcavano con grida e gesti ogni rovesciamento di salsa e rottura di piatto; aspettavano di vedere arrivare Enrique per intervenire con facce sdegnate, espressioni di estraneità. Allo stesso tempo di chiamavano tra loro "Amico mio", o "Fratellino"; si lanciavano sorrisi o smorfie. Nelle pause più lunghe affondavano in conversazioni su automobili o donne, prospettive di guadagno e permessi di lavoro.
[…]
Ho pensato che era vero; che quasi chiunque avevo incontrato nascondeva progetti e ambizioni che coltivava da chissà quanto tempo. Tutti andavano avanti sordamente, appena intaccati e immalinconiti dalla realtà; convinti di avere il sistema giusto per passare attraverso la rete. La città sembrava attirare e stimolare ogni possibile forma di illusione o ambizione stranamente riposta sul proprio conto.
Guardavo i negozi italiani di abiti che si affacciavano sulla strada in forma di immense scatole di confetti. C'erano gioiellerie come ambasciate ottocentesche: con pilastri e marmi sulle facciate, tende di velluto negli atrii. Altri edifici erano inconsistenti, fragili; bianchi e squadrati. Era un giorno grigio, di luce opaca diffusa, di bassa pressione. Andavo dietro a Tracy e respiravo con una certa difficoltà; guardavo in giro in preda a una strana ansia morbosa.
Tracy camminava davanti a me, veloce; marcava il passo con un'oscillazione delle braccia. Cercava di trascinarmi dove voleva anelare, senza curarsi del mio interesse per il paesaggio. L'ho seguita per qualche minuto in atteggiamento di pecora condotta in giro: svogliato, lento agli incroci. A un certo punto il suo modo di camminare e strattonarmi avanti mi è diventato insopportabile. All'altezza di un negozio di orologi le ho detto che potevamo vederci alla macchina più tardi. Lei mi ha guardato alla svelta; ha detto «Va bene, va bene».
Sono tornato verso la strada che avevo visto all'inizio.
Guardavo la gente davanti e dietro alle vetrine; le grandi macchine che passavano raso al marciapiede e si fermavano per qualche minuto senza aprire le portiere. Fermo a un angolo ho osservato una signora mentre parcheggiava una Rolls Royce grigia in uno spazio ristretto tra due altre automobili. Cercavo di registrare i suoi gesti, il suo modo di inclinare la testa per vedere nello specchio retrovisore chi guidava dietro di lei e chi invece arrivava lungo il marciapiede. C'era una connessione tra i vestiti che aveva, la lentezza dei suoi movimenti, i riflessi sui vetri della sua macchina.
Guardavo gli oggetti esposti nelle vetrine:mi colpiva la loro consistenza, la loro densità nella luce.
Guardavo ragazze che camminavano veloci, con calzoni larghi chiusi alle caviglie e guance arrossate; signore di mezz'età con occhiali pesanti e sandali sottili; uomini con pance e abbronzature di diverso spessore. Non riuscivo bene a capire chi faceva davvero parte della scena, e chi invece era ai margini e si limitava a indossare modi di fare e abiti di ruolo. Quasi tutti avevano espressioni che li legavano al posto, alle sfumature del posto. Pensavo che alcuni dovevano essere in realtà commessi di negozio, o segretarie ad alto livello, o ragazzine dei suburbi; ma avevano assorbito abbastanza dallo scenario da assumerne i caratteri. Si erano rivoltolati nella brillantezza abbastanza a lungo da divenire
brillanti a loro volta.
Dopo qualche minuto il ciclo si è incrinato e aperto; nel giro di poco era azzurro. La strada ha acquistato contrasto di colpo. Dal punto dov'ero i dettagli venivano fuori tridimensionali,
brillanti. Cercavo di assorbirli più che potevo; di inalarli, quasi.
[…]
Ron e Tracy erano come due giovani squali insicuri, rissosi, frenetici attorno al telefono ogni volta che squillava. Erano sempre sul chi vive, attenti a non tradirsi o dimostrarsi troppo ingenui. Vedevano Los Angeles come una pista a ostacoli, e ogni salto come l’ultimo della serie; suddividevano il numero sconfinato di salti necessari ad arrivare in generi e sottogeneri. Giravano in circolo alla ricerca di frammenti di successo da divorare subito per crescere a giovani squali di maggiore dimensione. Da ogni minuto episodio si aspettavano conseguenze di qualche importanza per le loro vite. In certi momenti di frenesia totale i numeri di telefono sulle agendine non bastavano a calmare la loro fame di occasioni o spunti per esporsi e farsi conoscere in qualche modo.
[…]
Tutti i camerieri si odiavano, cercavano di mettersi in difficoltà l'un l'altro. Creavano spazi attorno a un errore per farlo risaltare il più possibile, amplificarlo oltre misura. Rimarcavano con grida e gesti ogni rovesciamento di salsa e rottura di piatto; aspettavano di vedere arrivare Enrique per intervenire con facce sdegnate, espressioni di estraneità. Allo stesso tempo di chiamavano tra loro "Amico mio", o "Fratellino"; si lanciavano sorrisi o smorfie. Nelle pause più lunghe affondavano in conversazioni su automobili o donne, prospettive di guadagno e permessi di lavoro.
[…]
Ho pensato che era vero; che quasi chiunque avevo incontrato nascondeva progetti e ambizioni che coltivava da chissà quanto tempo. Tutti andavano avanti sordamente, appena intaccati e immalinconiti dalla realtà; convinti di avere il sistema giusto per passare attraverso la rete. La città sembrava attirare e stimolare ogni possibile forma di illusione o ambizione stranamente riposta sul proprio conto.
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