Una vita violenta - Pier Paolo Pasolini
La mattina appresso Tommasino s’alzò alle sei, che ancora faceva buio, un po’ pioveva e un po’ tirava vento. Col chiaro venne il sole, poi ripiovve ancora, poi tornò il sole.
Verso mezzogiorno, Pietralata era tutta fradicia, che luccicava. Sul vecchio fango secco della spianata c’era una crosticina di fango nuovo, di cioccolata, dove i maschi ruzzolavano come maialetti giocando a pallone.
Tommasino reggeva in una mano il sacco vuoto dove aveva messo il ferrovecchio, l’altra mano la teneva in saccoccia, dove tutte ciancicate stavano le due piotte rimediate andando per ferro, tra i mucchi d’immondezza lungo le scarpate della Tiburtina.
«A regazzí», gridò a uno, a bocca larga e a gambe larghe, «gioco pure io, si nun ve dispiace».
«None, none!» strillarono i ragazzini. «Semo giusti!»
«Ma li mortacci vostra», gridò Tommaso, «quale giusti, quale giusti, ma che sarebbe? Che, sete ‘a Roma?»
«E vattene, nun sta a rompe er ca...!» gridò uno dei piccoletti con una voce da grammofono scassato.
Per tutta risposta Tommasino si spostò a passi lenti e strascinati verso una delle due porte, buttò su uno dei bozzi di breccole che facevano da palo, il sacco, e si tirò in mezzo alla spianata tra il mucchio dei ragazzini.
Uno che pareva una mela gli andò contro mezzo piangendo, gridandogli che gli scoppiava il gargarozzetto: «Te ne vòi annà? A disgrazziato!»
Ma in quel mentre arrivava da quella parte il pallone, Tommasino diede una caracca al pisellino facendolo cascare col chiappo sulla fanga, e ridendo forte tutto rosso in faccia, si mise a correre dietro al pallone con quelle due gambe storcinate che parevano quelle d’un cane bassotto.
«È entrato lui!» gridò allora, con le mani a imbuto intorno alla bocca, un fanello che poltriva, con altri due o tre soci, al bordo del campetto. Se ne stava lí sbragato, con gli altri, in un po’ d’ombra, contro la parata frolla d’un orto pieno di carte sporche e di pezzi d’orinale.
Tommasino finse di non aver sentito la sbrasata.
«A Piedizozzi!» gridò l’altro, alzandosi in piedi, e chiamandolo col nome dato al fratello piú grosso, un roscio lenticchioso pure lui, che puzzava sempre come una marana. «Che, te senti d’esse quarcuno?»
Tommasino continuava a correre gettando qua e la i perticoni sul fango, con ai piedi due barche legate con cordicelle e spaghi, senza ancora pensare per niente a quello che lo stava a prendere di petto.
L’altro cominciò subito a prenderci gusto. Alzandosi all’impiedi, la faccia gli s’era tutta bruscolita, e un sorriso beato s’era venuto a piazzare negli occhi stretti, fissi in avanti, come rappresi pel godimento del suo profondo bene spirituale. Si cacciò le mani nelle saccocce dei calzoni che gli stavano a bragarella, e di sotto la maglietta gli si vedeva il bellicolo, e si fece ancora più avanti sul bordo del campo, passandosi la lingua sulle labbra.
«A Piedizozzi», ricominciò, «ma nun lo vedi che te tocca camminà co’ ‘e gambe larghe? Ma nun lo vedi che perdi come le papere?»
Tommasino stavolta, correndo già tutto sudato con una mano di sugo di pomodoro in faccia, si rivoltò, e ridacchiando cogl’occhi acquosi e una rughetta che gli tagliava a metà la fronte: «A Zimmí», gridò, «e lasseme perde, no? Nun lo vedi che so’ Pandorfini, so?» E si ributtò a testa bassa contro il pallone tra la mischia dei ragazzini.
La mattina appresso Tommasino s’alzò alle sei, che ancora faceva buio, un po’ pioveva e un po’ tirava vento. Col chiaro venne il sole, poi ripiovve ancora, poi tornò il sole.
Verso mezzogiorno, Pietralata era tutta fradicia, che luccicava. Sul vecchio fango secco della spianata c’era una crosticina di fango nuovo, di cioccolata, dove i maschi ruzzolavano come maialetti giocando a pallone.
Tommasino reggeva in una mano il sacco vuoto dove aveva messo il ferrovecchio, l’altra mano la teneva in saccoccia, dove tutte ciancicate stavano le due piotte rimediate andando per ferro, tra i mucchi d’immondezza lungo le scarpate della Tiburtina.
«A regazzí», gridò a uno, a bocca larga e a gambe larghe, «gioco pure io, si nun ve dispiace».
«None, none!» strillarono i ragazzini. «Semo giusti!»
«Ma li mortacci vostra», gridò Tommaso, «quale giusti, quale giusti, ma che sarebbe? Che, sete ‘a Roma?»
«E vattene, nun sta a rompe er ca...!» gridò uno dei piccoletti con una voce da grammofono scassato.
Per tutta risposta Tommasino si spostò a passi lenti e strascinati verso una delle due porte, buttò su uno dei bozzi di breccole che facevano da palo, il sacco, e si tirò in mezzo alla spianata tra il mucchio dei ragazzini.
Uno che pareva una mela gli andò contro mezzo piangendo, gridandogli che gli scoppiava il gargarozzetto: «Te ne vòi annà? A disgrazziato!»
Ma in quel mentre arrivava da quella parte il pallone, Tommasino diede una caracca al pisellino facendolo cascare col chiappo sulla fanga, e ridendo forte tutto rosso in faccia, si mise a correre dietro al pallone con quelle due gambe storcinate che parevano quelle d’un cane bassotto.
«È entrato lui!» gridò allora, con le mani a imbuto intorno alla bocca, un fanello che poltriva, con altri due o tre soci, al bordo del campetto. Se ne stava lí sbragato, con gli altri, in un po’ d’ombra, contro la parata frolla d’un orto pieno di carte sporche e di pezzi d’orinale.
Tommasino finse di non aver sentito la sbrasata.
«A Piedizozzi!» gridò l’altro, alzandosi in piedi, e chiamandolo col nome dato al fratello piú grosso, un roscio lenticchioso pure lui, che puzzava sempre come una marana. «Che, te senti d’esse quarcuno?»
Tommasino continuava a correre gettando qua e la i perticoni sul fango, con ai piedi due barche legate con cordicelle e spaghi, senza ancora pensare per niente a quello che lo stava a prendere di petto.
L’altro cominciò subito a prenderci gusto. Alzandosi all’impiedi, la faccia gli s’era tutta bruscolita, e un sorriso beato s’era venuto a piazzare negli occhi stretti, fissi in avanti, come rappresi pel godimento del suo profondo bene spirituale. Si cacciò le mani nelle saccocce dei calzoni che gli stavano a bragarella, e di sotto la maglietta gli si vedeva il bellicolo, e si fece ancora più avanti sul bordo del campo, passandosi la lingua sulle labbra.
«A Piedizozzi», ricominciò, «ma nun lo vedi che te tocca camminà co’ ‘e gambe larghe? Ma nun lo vedi che perdi come le papere?»
Tommasino stavolta, correndo già tutto sudato con una mano di sugo di pomodoro in faccia, si rivoltò, e ridacchiando cogl’occhi acquosi e una rughetta che gli tagliava a metà la fronte: «A Zimmí», gridò, «e lasseme perde, no? Nun lo vedi che so’ Pandorfini, so?» E si ributtò a testa bassa contro il pallone tra la mischia dei ragazzini.
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