Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e
d'interrogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir da lontano, dalla
parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburi e ne domandò al giardiniere. Erano
i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla
riva. "Adesso si fa per giuoco", disse il giovinetto. "Mica per
giuoco, ma insomma...! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una
lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro." Il mostro era il
vapore austriaco da guerra Radetzki, detto dai riverani piemontesi Radescòn.
"Entra adesso nel porto di Laveno", disse il giovinetto. "Viene
da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene."
Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e
sedette sul primo sedile che trovò sotto gli strobus, posto a ridosso di una
macchia di bambù e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro
ai bambù, fra i grossi tronchi distorti degli strobus, si vedeva tremolare lo
specchio delle acque bianche fino alla lista nera delle colline d'Ispra. Il
cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono
fino al cancello stemmato che guarda la verde Isola Madre, Pallanza e il lago
superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate
di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di
Maccagno, alle nevi lontane della Spluga. Del Radetzki si vedeva più il fumo
che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il
giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello,
presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L'albero le toglieva la vista
del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i
suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque
immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie
fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. "Le
bruyères blanches portano fortuna", diss'egli. Vedendo che Luisa,
distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie.
"Vecchio strobus", diss'egli parlando forte per farsi udire dai
forestieri, ma senza voltarsi. "Vecchio strobus colpito dal fulmine. Se
vogliono veder il giardino privato..."
Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il
braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso
l'entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore
seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui. Come la
vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito daln fulmine. Il
suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il
petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio
stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio
Piero, il caro venerato vecchio, l'uomo savio, l'uomo giusto, il benefattore
de' suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto, sì, ad arruolarsi,
Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l'appello, egli
aveva risposto. I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo,
l'avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato
alle future battaglie dell'era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da
quelli onde l'uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all'ultimo
momento, senza saperlo, da quell'ignoto prete dell'Isola Bella, che mai, forse,
non aveva detto le sante parole a un più degno.
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