4 gennaio 2019

Metà di un sole giallo - Chimamanda Ngozi Adichie

Metà di un sole giallo - Chimamanda Ngozi Adichie

Padrone era un po’ matto; aveva passato troppi anni all’estero a leggere libri, parlava da solo in ufficio, non sempre rispondeva al saluto e aveva troppi capelli. Queste cose a Ugwu le sussurrò la zia mentre camminavano sul sentiero. – Però è un brav’uomo, – aggiunse. – E se ti dai da fare come si deve, mangerai come si deve. Anche carne tutti i giorni –. Si fermò a sputare; la saliva le uscì di bocca con un risucchio e atterrò nell’erba. Ugwu non ci credeva perché nessuno, nemmeno questo padrone da cui andava a stare, mangiava carne tutti i giorni. Ma non la contraddisse: aveva il cuore in gola per la curiosità e la testa piena di fantasie sulla sua nuova vita lontano da casa. Camminavano da un pezzo ormai, da quando il camion li aveva scaricati al parcheggio, e il sole del pomeriggio gli bruciava il collo. Lui però non ci faceva caso. Sarebbe stato disposto a marciare ancora per ore sotto un sole anche più feroce. Non aveva mai visto niente di simile alle strade che incontrarono dopo i cancelli dell’università, strade talmente lisce e ben asfaltate da fargli venir voglia di metterci sopra la faccia. Come avrebbe fatto a spiegare a sua sorella Anulika che qui le case erano dipinte del colore dell’aria e che se ne stavano in fila come tanti signori eleganti, e che le siepi in mezzo erano rasate così piatte da sembrare tavole vestite di foglie?
La zia affrettò il passo, con le ciabatte che le facevano clic clac nel silenzio della via. Ugwu si chiese se anche lei sentiva il catrame scaldarsi sotto le suole sottili. Superarono un cartello che diceva odim street e Ugwu compitò la parola come faceva ogni volta che ne trovava una in inglese non troppo lunga da leggere. Entrarono in un compound, sentì un profumo dolce che dava alla testa, e fu certo che provenisse dai grappoli di fiori bianchi tra i cespugli all’ingresso. Le piante avevano la forma di colline magre. Il prato luccicava. L’aria tremolava di farfalle.
– Gli ho detto che impari tutto in fretta, osiso-osiso, – disse la zia. Ugwu annuì convinto, anche se gliel’aveva ripetuto già mille volte, almeno quanto la storia di come gli fosse toccata quella fortuna: mentre spazzava i corridoi del dipartimento di Matematica una settimana prima, aveva sentito Padrone dire che gli serviva un domestico per le pulizie di casa, e lei si era precipitata a fargli sapere che poteva risolvergli il problema, senza lasciare il tempo né alla dattilografa né al fattorino di proporre qualcuno.
– Imparerò in fretta, zia, – disse Ugwu. Fissava incantato la macchina in garage; aveva una striscia di metallo che girava tutto intorno alla carrozzeria azzurra come una collana.
– Ricordati, quando ti chiama tu devi sempre rispondere «Sì, signore!»
– Sì, signore! – ripeté Ugwu.
Stavano davanti alla porta a vetri. Ugwu era rimasto un po’ indietro per poter allungare la mano e toccare il muro in cemento: voleva sentire la differenza da quello della capanna di sua madre, di fango e con i segni delle dita che l’avevano costruito ancora un po’ in vista. Per un istante, rimpianse di non esserci in quel momento, nella capanna di sua madre, sotto l’ombra fresca del tetto di paglia; o magari in casa della zia, l’unica del villaggio con il tetto di lamiera ondulata.

Traduzione di Susanna Basso

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