Padrone era un po’
matto; aveva passato troppi anni all’estero a leggere libri, parlava da solo in
ufficio, non sempre rispondeva al saluto e aveva troppi capelli. Queste cose a Ugwu
le sussurrò la zia mentre camminavano sul sentiero. – Però è un brav’uomo, – aggiunse.
– E se ti dai da fare come si deve, mangerai come si deve. Anche carne tutti i giorni –. Si fermò a
sputare; la saliva le uscì di bocca con un risucchio e atterrò nell’erba. Ugwu
non ci credeva perché nessuno, nemmeno questo padrone da cui andava a stare, mangiava carne tutti
i giorni. Ma non la contraddisse: aveva il cuore in gola per la curiosità e la
testa piena di fantasie sulla sua nuova vita lontano da casa. Camminavano da un
pezzo ormai, da quando il camion li aveva scaricati al parcheggio, e il sole
del pomeriggio gli bruciava il collo. Lui però non ci faceva caso. Sarebbe
stato disposto a marciare ancora per ore sotto un sole anche più feroce. Non
aveva mai visto niente di simile alle strade che incontrarono dopo i cancelli
dell’università, strade talmente lisce e ben asfaltate da fargli venir voglia
di metterci sopra la faccia. Come avrebbe fatto a spiegare a sua sorella
Anulika che qui le case erano dipinte del colore dell’aria e che se ne stavano
in fila come tanti signori eleganti, e che le siepi in mezzo erano rasate così
piatte da sembrare tavole vestite di foglie?
La zia affrettò il
passo, con le ciabatte che le facevano clic clac nel silenzio della via. Ugwu
si chiese se anche lei sentiva il catrame scaldarsi sotto le suole sottili.
Superarono un cartello che diceva odim street e Ugwu compitò la parola come
faceva ogni volta che ne trovava una in inglese non troppo lunga da leggere.
Entrarono in un compound, sentì un profumo dolce che
dava alla testa, e fu certo che provenisse dai grappoli di fiori bianchi tra i cespugli
all’ingresso. Le piante avevano la forma di colline magre. Il prato luccicava. L’aria tremolava di
farfalle.
– Gli ho detto che
impari tutto in fretta, osiso-osiso, – disse la zia. Ugwu annuì convinto,
anche se gliel’aveva ripetuto già mille volte, almeno quanto la storia di come
gli fosse toccata quella fortuna: mentre spazzava i corridoi del dipartimento
di Matematica una settimana prima, aveva sentito Padrone dire che gli serviva
un domestico per le pulizie di casa, e lei si era precipitata a fargli sapere
che poteva risolvergli il problema, senza lasciare il tempo né alla
dattilografa né al fattorino di proporre qualcuno.
– Imparerò in fretta,
zia, – disse Ugwu. Fissava incantato la macchina in garage; aveva una striscia
di metallo che girava tutto intorno alla carrozzeria azzurra come una collana.
– Ricordati, quando
ti chiama tu devi sempre rispondere «Sì, signore!»
– Sì, signore! –
ripeté Ugwu.
Stavano davanti alla
porta a vetri. Ugwu era rimasto un po’ indietro per poter allungare la mano e
toccare il muro in cemento: voleva sentire la differenza da quello della
capanna di sua madre, di fango e con i segni delle dita che l’avevano costruito
ancora un po’ in vista. Per un istante, rimpianse di non esserci in quel
momento, nella capanna di sua madre, sotto l’ombra fresca del tetto di paglia;
o magari in casa della zia, l’unica del villaggio con il tetto di lamiera
ondulata.
Traduzione di Susanna Basso
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