5 settembre 2017

Confessioni di un teppista - Sergej Aleksandrovic Esenin

Enrico Nicodemo - Vela gialla
Confessioni di un teppista - Sergej Aleksandrovic Esenin

Non tutti son capaci di cantare
e non a tutti è dato di cadere
come una mela, verso i piedi altrui.

E’ questa la più grande confessione
che mai teppista possa confidarvi.

Io porto di mia voglia spettinata la testa,
lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace nella tenebra schiarire
lo spoglio autunno delle anime vostre;
e piace a me che mi volino contro
i sassi dell’ingiuria,
grandine di eruttante temporale.
Solo più forte stringo fra le mani
l’ondulata mia bolla di capelli.

E’ benefico allora ricordare
il rauco ontano e l’erbeggiante stagno,
e che mi vivono da qualche parte
padre e madre, infischiandosi del tutto
dei miei versi, e che loro son caro
come il campo e la carne, e quella pioggia fina
che a primavera fa morbido il grano verde.
Per ogni grido che voi mi scagliate
coi forconi verrebbero a scannarvi.
Poveri, poveri miei contadini!
Certo non siete diventati belli,
e Iddio temete e degli acquitrini le viscere.
Capiste almeno
che vostro figlio in Russia
è fra i poeti il più grande!
Non si gelava il cuore a voi per lui,
scalzo nelle pozzanghere d’autunno?
Adesso va girando egli il cilindro
e portando le scarpe di vernice.

Ma vive in lui la primigenia impronta
del monello campagnolo.
Ad ogni mucca effigiata
sopra le insegne di macelleria
si inchina da lontano.
Ed incontrando in piazza i vetturini
ricorda l’odore del letame sui campi,
pronto, come uno strascico nuziale,
a reggere la coda dei cavalli.

Amo la patria. Amo molto la patria!
Pur con la sua tristezza di rugginoso salice.
mi son gradevoli i grugni insudiciati dei porci,
e nel silenzio notturno l’argentina voce dei rospi.
teneramente malato di memorie infantili
sogno la nebbia e l’umido delle sere d’aprile.
Come a scaldarsi al rogo dell’aurora
s’è accoccolato l’acero nostro.
Ah, salendone i rami quante uova
ho rubato dai nidi alle cornacchie!
E’ sempre uguale, con la verde cima?
E’ come un tempo forte la corteccia?

E tu, diletto,
fedele cane pezzato!
Stridulo e cieco t’hanno fatto gli anni,
e trascinando vai per il cortile la coda penzolante,
col fiuto immemore di porte e stalla.
Come grata ritorna quella birichinata:
quando il tozzo di pane rubacchiato
alla mia mamma, mordevamo a turno
senza ribrezzo alcun l’uno dell’altro.

Sono rimasto lo stesso, con tutto il cuore.
Fioriscono gli occhi in viso
simili a fiordalisi fra la segala.
Stuoie d’oro di versi srotolando,
vorrei parlare a voi teneramente.

Buona notte! Buona notte a voi tutti!
La falce dell’aurora ha già tinnito
fra l’erba del crepuscolo.
Voglio stanotte pisciare a dirotto
dalla finestra mia sopra la luna!

Azzurra luce, luce così azzurra!
In tanto azzurro anche morir non duole.
E non mi importa di sembrare un cinico
con la lanterna attaccata al sedere!
Mio vecchio, buono ed estenuato Pegaso,
mi sreve proprio il tuo morbido trotto?
Io, severo maestro, son venuto
a celebrare i topi ed a cantarli.
L’agosto del mio capo si versa quale vino
di capelli in tempesta.

Ho voglia d’essere la vela gialla
verso il paese cui per mare andiamo.
 

(trad. di G.P. Samonà)

2 commenti:

  1. Penso possa fare piacere leggere la mia versione della celebre poesia di Esenin:

    Sergej Esenin

    La confessione di un teppista

    Non tutti sanno cantare,
    Non tutti sanno come una mela
    Cadere ai piedi altrui.

    Questa è la più grande confessione
    Che un teppista possa fare.

    Io vado spettinato a bella posta,
    La testa sulle spalle come lume a petrolio.
    L’autunno sfrondato delle anime vostre
    Mi piace nell’oscurità illuminare.
    Mi piace quando le pietre delle ingiurie
    Mi colpiscono, come grandine di bufera ruttante,
    Io allora stringo più forte con le mani
    Della mia chioma la vescica ondeggiante.

    È così bello allora ricordare
    Lo stagno coperto d’erba e la voce roca dell’ontano,
    Là dove vivono mio padre e mia madre,
    Che se ne fregano di ciò che scrive la mia mano,
    Ai quali io sono caro come il campo e la carne,
    Come la pioggia che in primavera rende soffice il prato.
    Essi verrebbero a infilzarvi col forcone
    Per ogni insulto che mi avete lanciato.

    Poveri, poveri contadini!
    Voi, certo, vi siete imbruttiti
    E temete Dio e lo spirito palustre.
    Oh, se voi solo capiste
    Che vostro figlio in Russia
    È il poeta più illustre!
    Non si coprivano di brina i vostri cuori
    Quando bagnava i piedi nudi nelle pozze autunnali?
    Adesso egli cammina col cilindro
    E costosi stivali.

    Ma vive in lui lo stesso spirito scherzoso
    Del campagnolo birichino.
    A ogni mucca sull’insegna delle macellerie
    Già da lontano lui fa un inchino.
    E, incontrando i cocchieri sulla piazza,
    Ricorda i campi e l’odore del letame,
    Ed è pronto a reggere la coda di un cavallo,
    Come la coda di un abito nuziale.

    Io amo la patria.
    Io amo molto la patria!
    Benché coperta di tristezza come quercia rugginosa.
    Mi piacciono i grugni sudici dei maiali
    E il verso sonoro dei rospi nella notte silenziosa.
    Sono dolcemente malato di ricordi dell’infanzia,
    Sogno la nebbia e delle sere d’aprile ogni ora.
    Il nostro acero si accovacciava
    Per scaldarsi al fuoco dell’aurora.
    Oh, quante uova dai nidi delle cornacchie
    Io rubavo, arrampicandomi su di esso!
    È sempre com’era, con la corona verde?
    E la corteccia è dura ancora adesso?

    E tu, mio caro,
    Fedele cane pezzato?!
    La vecchiaia ti ha reso ceco e brontolone,
    Ti trascini nel cortile con la coda ciondoloni,
    Col fiuto non trovi più la porta né la stalla.
    O, come sono care tutte le scappatelle,
    Come quando a mia madre una crosta di pane rubavo,
    E insieme un morso ciascuno
    Senza imbrogliare la mangiavamo.

    Io sono quello di sempre.
    Il mio cuore è sempre lo stesso.
    Come nella segala i fiordalisi, fioriscono gli occhi come viole.
    Stendendo di versi stuoie dorate,
    Ho voglia di dirvi tenere parole.

    Buona notte!
    Buona notte a voi tutti!
    Ha smesso di sonare nell’erba la falce dell’alba...
    Oggi ho una gran voglia
    Di pisciare sulla luna dalla finestra.

    O luce azzurra, luce così azzurra!
    In questo azzurro neanche morire è un dispiacere.
    Che importa se sembro un cinico
    Che si è messo una lanterna sul sedere!
    Buon, vecchio, stremato Pegaso,
    Ho forse bisogno dei tuoi soffici trotti?
    Sono arrivato come severo maestro,
    A decantare e glorificare i ratti.
    Come agosto, la mia zucca versa
    Il vino dei burrascosi capelli.

    Voglio essere una vela gialla
    Verso il paese dove navighiamo.

    Novembre 1920


    (Trad. Paolo Statuti)




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