23 settembre 2019

da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

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da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

107. Quando dormo molti sogni esco in strada con gli occhi aperti che conservano ancora la loro traccia e la loro certezza. E mi stupisco del mio automatismo attraverso il quale gli altri mi ignorano. Perché attraverso la vita quotidiana senza lasciare la mano della nutrice astrale, e i miei passi per strada sono concordi e consoni a oscuri disegni dell’immaginazione di dormire. E per strada cammino sicuro; non vacillo; rispondo bene; esisto. Ma, quando c’è un intervallo e non devo controllare l’andatura della mia marcia, per evitare veicoli o non intralciare pedoni, quando non devo parlare a nessuno, e non mi costa entrare in un portone vicino, mi abbandono nuovamente nelle acque del sogno, come una barchetta di carta piegata sugli angoli e ritorno di nuovo alla pallida illusione che mi aveva accarezzato la vaga coscienza del mattino mentre nasceva fra il rumore dei carretti ricolmi di ortaggi. Ed è allora, nel pieno della vita, che il sogno ha grandi schermi. Percorro una via irreale della Baixa e la realtà delle vite inesistenti mi fascia carezzevolmente la testa con un panno bianco di false reminiscenze. Sono un navigatore in un misconoscimento di me stesso. Ho vinto tutto, dove non sono mai stato. Ed è una brezza nuova questa sonnolenza con cui posso camminare, curvato in avanti nella marcia sopra l’impossibile. Ognuno ha il suo alcol. Io ho alcol a sufficienza nell’esistere. Ubriaco di sentirmi, vago e mi muovo sicuro. Se è ora, rientro in ufficio come qualsiasi altro. Se non è ora, vado fino al fiume a fissare il fiume, come qualsiasi altro. Sono uguale. E, celato dietro a questo, cielo mio, di nascosto mi faccio costellazione e ho il mio infinito.

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