17 settembre 2019

da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

opera di Igor Mitoraj
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

99. La vita è per noi ciò che in essa immaginiamo. Per il contadino per il quale il suo campo è tutto, quel campo è un impero. Per Cesare il cui impero gli sembra ancora poco, quell’impero è un campo. Il povero possiede un impero; il grande possiede un campo. In realtà non possediamo altro che le nostre sensazioni; su di esse, dunque, dobbiamo basare la realtà della nostra vita, piuttosto che su quello che esse vedono. Questo non viene a proposito di niente. Ho sognato molto. Sono stanco di aver sognato, ma non sono stanco di sognare. Nessuno si stanca di sognare, perché sognare è dimenticare e dimenticare non pesa ed è un sonno senza sogni in cui siamo svegli. Nei sogni ho ottenuto tutto. Mi sono anche risvegliato, ma che importa? Quanti Cesari sono stato! E i gloriosi che meschini! Cesare, salvato dalla morte grazie alla generosità di un pirata, fa crocifiggere quello stesso pirata non appena riesce a catturarlo, dopo una minuziosa ricerca. Napoleone, nel fare testamento a Sant’Elena, lascia un’eredità a un facinoroso che aveva tentato di assassinare Wellington. Oh, glorie, pari a quella della vicina strabica! Oh, grandi uomini della cuoca di un altro mondo! Quanti Cesari sono stato e sogno ancora di essere! Ma i Cesari che sono stato non sono Cesari reali. Sono stato davvero imperiale fin tanto che sognavo e per questo non sono mai stato nulla. I miei eserciti sono stati sconfitti, ma la disfatta è stata blanda e nessuno è morto. Non ho perduto stendardi. Non ho sognato il mio esercito fino al punto [sic], in cui questi stendardi sarebbero apparsi al mio sguardo nel cui sogno fanno angolo. Quanti Cesari sono stato, proprio qui, in Rua dos Douradores. E i Cesari che sono stato ancora vivono nella mia immaginazione; ma i Cesari esistiti sono morti e la Rua dos Douradores, cioè la Realtà, non li può conoscere. Getto la scatola dei fiammiferi vuota, nell’abisso della strada oltre il parapetto della mia finestra alta senza balcone. Mi alzo dalla seggiola e ascolto. Nitidamente, come se avesse un significato, la scatola di fiammiferi vuota risuona sulla strada che essa mi rivela deserta. Non c’è nessun altro rumore, oltre a tutti i rumori della città. Sì, i rumori della città di domenica: tanti, confusi, e tutti giusti. Quante cose insignificanti costituiscono, nel mondo reale, la base delle meditazioni migliori. Essere arrivato tardi per il pranzo, i fiammiferi finiti, avere gettato, personalmente, la scatola sulla strada, maldisposto perché avevo mangiato fuori orario, il fatto che la domenica sia il preannuncio nell’aria di un brutto tramonto, il fatto di non essere nessuno nel mondo, e tutta la metafisica. Ma quanti Cesari sono stato!

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