1 dicembre 2020

da "Metamorfosi", libro decimo - Ovidio

Paolo Veronese -Venere e Adone, 1582, olio su tela 2,12 m x 1,91 m, Museo del Prado, Madrid
da "Metamorfosi", libro decimo - Ovidio

Portata lungo il cielo, sul suo cocchio leggero, dalle ali
dei cigni, Venere non era ancora giunta a Cipro:
da lontano riconobbe il gemito del morente e invertì il volo
dei bianchi uccelli. E come dall'alto intravide il corpo
che in fin di vita si torceva nel suo stesso sangue,
si precipitò giù, strappandosi veste e capelli,
percotendosi il petto con le mani, come non le era costume.
Lamentandosi poi col fato, disse: "No, non potrà la tua legge
disporre d'ogni cosa. Imperituro rimarrà il ricordo,
Adone, del mio lutto: ripetuta ogni anno, la scena
della tua morte testimonierà in eterno il mio dolore.
Ma il tuo sangue si muterà in un fiore. Se a te fu permesso,
Persefone, di trasformare il corpo di una donna in una pianta
di menta profumata, perché mi si dovrebbe rimproverare,
se muto l'eroico figlio di Cìnira?". Detto questo, nel sangue
versò nèttare odoroso e il sangue al contatto cominciò
a fermentare, così come nel fango, sotto la pioggia,
si formano bolle iridescenti. Nemmeno un'ora
era passata: dal sangue spuntò un fiore del suo stesso colore;
un fiore, come quello del melograno, i cui frutti celano
sotto la buccia sottile i suoi semi. Ma è fiore di vita breve:
fissato male al suolo e fragile per troppa leggerezza,
deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali".
 

 

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