20 dicembre 2016

Stephane Mallarmè – Brindisi funebre

Georg Flegel – Natura morta con vino e uova
Stephane Mallarmè – Brindisi funebre


O tu, fatale emblema della nostra ventura!
Saluto di demenza e libagione oscura,
Certo non alla magica speranza del passaggio
Alzo la coppa in cui soffre un mostro dorato!
La tua apparizione ormai più non mi basta:
Poiché io stesso in luogo di porfido t’ho posto.
Il rito è per le mani d’estinguere la face
Contro le ferree porte del sepolcro che tace:
E mal s’ignora, eletto per questa nostra quieta
Festa di celebrare l’assenza del poeta,
Che questo bel sepolcro in sé lo chiude intero.
Eccetto che la gloria ardente del mestiere,
Fino all’ora comune e vile della cenere,
Pel vetro acceso d’una sera fiera di scendere,
Ritorna verso i fuochi del puro sol mortale!
Magnifico, totale e solitario, tale
Esalando vacilla il falso orgoglio umano.
Questa folla feroce! Essa annuncia: noi siamo
La triste opacità di noi spettri futuri.
Ma il blasone dei lutti sparso su vani muri
D’una lacrima il lucido orrore ho disprezzato,
Quando, sordo al mio sacro distico, né allarmato,
Qualcuno dei passanti, superbo, cieco e muto,
Ravvolto nel suo vago sudario, si trasmuta
Nell’eroe intangibile della postuma attesa.
Vasto abisso portato nelle nebbie a distesa
Dal turbo di parole ch’egli non disse ancora,
Il nulla a questo Uomo abolito di allora:
«Memorie d’orizzonti, cos’è, o tu, la Terra?»
Urla quel sogno; e, voce la cui luce si perda,
Lo spazio ha per trastullo il grido: «Io non so!»
Il Maestro, col grave occhio, pacificò
Sui suoi passi dell’eden l’inquieta meraviglia
Il cui finale brivido, sol con la voce, sveglia
Il mistero d’un nome per il Giglio e la Rosa.
Resta, di questa sorte, resta mai qualche cosa?
Una oscura credenza, o voi tutti, v’ingombra.
Il genio luminoso eterno non ha ombra.
Io voglio, pensieroso di voi, voglio vedere
A chi si dileguò, ieri, dentro il dovere
Ideale che sono i parchi di quest’astro
Restare per l’onore del tranquillo disastro
Una solenne, vasta agitazione in cielo
Di parole, ebbra porpora, calice sullo stelo,
Che quel diafano sguardo, diamante, acqua d’aurora,
Rimasto là sui fiori di cui nessuno muore,
Alza solo tra l’ora ed il raggio del giorno!
Dei nostri veri parchi è già tutto il soggiorno,
Dove il poeta puro, col gesto largo e mite
Al sogno, del suo compito nemico, lo interdice;
Affinché nel mattino del suo riposo altero
Sorga, ornamento al bianco viale del cimitero,
Quando l’antica morte è come per Gautier
Di non aprire i sacri occhi e tacere in sé,
Il solido sepolcro che tutti i danni inghiotte,
E l’avaro silenzio e la pesante notte.

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