15 settembre 2019

da Essere un gatto – Matt Haig

da Essere un gatto – Matt Haig

«Se proprio vuoi un cane devi essere pronto a prendertene cura» gli aveva detto la mamma prima di andare a prendere Guster al canile cinque anni prima. «E questo vuol dire portarlo fuori due volte al giorno».
A essere sinceri, a Barney non pesava portare fuori a passeggio Guster. Spesso era la parte più bella della giornata, specialmente se il tempo si comportava bene. Quel giorno invece cominciò a piovere mentre Barney, seduto su una panchina del parco, aspettava che Guster facesse quello che doveva fare. Si trattava di una pioggia scrosciante e sgradevole, che ignorava spudoratamente il fatto che Barney non aveva l’ombrello.
«Bel compleanno» mormorò Barney riagganciando il guinzaglio al collare di Guster.
Sapeva che si stava compatendo, ma non poteva farci niente.
Sulla via del ritorno, passò davanti a una casa di Friary Road con un vecchio gatto dal pelo argenteo comodamente acciambellato al calduccio dietro una finestra. Essere un gatto, rifletté. Quella sì, sarebbe una vita comoda.
Niente scuola.
Niente Gavin Needle.
Nessun bisogno di essere svegliato prima delle sette del mattino.
Libertà totale. E, diversamente da un cane, nessun bisogno di uscire sotto la pioggia.
Mentre Barney pensava a queste cose, la bestiola si voltò verso di lui, e Barney riconobbe lo stesso gatto che vedeva fissarlo quando tutte le mattine passava davanti a quella casa. Aveva un occhio solo. L’altra sua orbita era stata cucita con un filo bianco così spesso che Barney poteva vederlo perfino dalla strada.
Anche Guster individuò il gatto, diede uno strattone al guinzaglio e cominciò ad abbaiare.
«Dai, Guster, piantala di fare lo stupido. Tanto non spaventi nessuno».
Quasi sotto casa, Barney si imbatté nel postino. «C’è qualcosa per il numero diciassette?» domandò.
Il postino frugò nel mucchio della corrispondenza. «Oh, sì. Sì, c’è qualcosa».
Barney prese le lettere e le fece passare rapidamente. C’era un biglietto d’auguri della zia Celia in mezzo alle buste marroncine delle bollette, ma niente da parte di suo padre. Sapeva che era stupido aspettarsi qualcosa e che sarebbe stato improbabile sperare di imbattersi in quella grafia che conosceva bene quanto la propria. Ma se suo padre era ancora vivo, Barney era sicuro che se si fosse messo in contatto con lui lo avrebbe fatto nel giorno del suo compleanno.
Ma no. Niente.
«Oh, altri conti da pagare» sospirò sua madre ricevendo la posta dal figlio.
«Non preoccuparti, mamma» disse Barney, cercando di essere convincente. Sua madre gli diede un bacetto sulla guancia, in fretta e furia, poi infilò di corsa la porta di casa. «Farò tardi, ’sto pomeriggio» disse. «Ho una riunione.
Tornerò verso le sette. Ma se ti viene fame c’è un po’ di carne fredda e insalata nel frigo».
Carne fredda?!
Il giorno del suo compleanno!
Sia chiaro, non che Barney si aspettasse una cena di dieci portate seguita da una gita in mongolfiera o roba del genere, ma forse qualcosina di più che un pomeriggio in solitudine a mangiare carne fredda e a fare i compiti.
Guardò sua madre infilarsi nella Mini e non poté fare a meno di pensare che ormai non era più davvero una persona. Era semplicemente una visione confusa sempre in movimento che solo qualche volta si fermava a sospirare.
La macchina partì.
E Barney restò sulla porta, a guardare la pioggia e a desiderare che suo padre fosse lì.
«Sta’ allegro, Barney Willow, hai solo dodici anni» disse una voce. «Non c’è nessun motivo di assomigliare già adesso a un adulto».
La voce era di Rissa Fairweather. Barney alzò gli occhi e vide di fronte a sé la sua migliore amica, alta e sorridente e con un ombrello a macchie di leopardo.
«Ciao, Rissa» la salutò, sorridendo per la prima volta nella mattina.

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