la scuola di Barbiana
da Lettera a una professoressa
Barbiana,
quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi.
Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro
c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi
che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva
sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal
primo giorno che avrei insegnato anch’io.
La
vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la vogliadi
tornare. Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva
accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse
tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti.
Non c’era ricreazione. Non era vacanza
nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è
peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo
punto. Un professorone disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia.
Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico”. Parlava
senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno
di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline. Finalmente andò
via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola
sarà sempre meglio della merda”.
Questa frase va scolpita sulla porta delle
vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla. Che i
ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci
avete interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni. Sei ragazzi su
dieci la pensano esattamente come Lucio. Degli altri quattro non si sa. Tutta
la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi.
L’anno dopo ero maestro. Cioè lo ero tre mezze
giornate la settimana. Insegnavo geografia matematica e francese a prima media.
Per scorrere un atlante o spiegare le frazioni non occorre la laurea. Se
sbagliavo qualcosa poco male. Era un sollievo per i ragazzi. Si cercava
insieme. Le ore passavano serene senza paura e senza soggezione. Lei non sa
fares cuola come me.
Poi insegnando imparavo tante cose. Per
esempio ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti
insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia. Dall’avarizia non ero
mica vaccinato. Sotto gli esami avevo voglia di mandare al diavolo i piccoli e
studiare per me. Ero un ragazzo come i vostri, ma lassù non lo potevo confessare
né agli altri né a me stesso. Mi toccava esser generoso anche quando non ero. A
voi vi parrà poco. Ma coi vostri ragazzi
fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate soltanto a farsi strada.
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