La scuola di Barbiana
da
Lettera a una professoressa
Cara
signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciatitanti. Io
invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi,a quell’istituzione che
chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”.
Ci respingete nei campie nelle fabbriche e ci dimenticate.
Due
anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezzaha
accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi daterra.
Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una
malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è diquelle che si
intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma
non parla. Più tardi ho creduto che la timidezza fosseil male dei montanari. I
contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla.
Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di
responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi.
E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io
che ci son dentro. Forse non è n é viltà né eroismo. È solo mancanza di
prepotenza.
Alle
elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in
un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto. È il sistema che
adoprano in America per creare le differenze tra bianchi e neri. Scuola peggiore
ai poveri fin da piccini.
Finite
le elementari avevo diritto a altri tre anni di scuola. Anzi la Costituzione
dice che avevo l’obbligo di andarci. Ma a Vicchio non c’era ancora scuola
media. Andare a Borgo era un’impresa. Chi ci s’era provato aveva speso un monte
di soldi e poi era stato respinto come un cane. Ai miei poi la maestra aveva
detto che non sprecassero i soldi: “Mandatelo nel campo.
Non è adatto per studiare”. Il babbo non le rispose. Dentro di sé pensava: “Se
si stesse di casa a Barbiana sarebbe adatto”.
A
Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino
a buio, estate e inverno. Nessuno era “negato per gli studi”.
Ma noi eravamo di un altro popolo e lontani. Il babbo stava perarrendersi. Poi
seppe che ci andava anche un ragazzo di S. Martino. Allora sifece coraggio e
andò a sentire.
Quando
tornò vidi che m’aveva comprato una pila per la sera, un gavettino per la minestra
e gli stivaloni di gomma per la neve. Il primo giorno mi accompagnò lui. Ci si
mise due ore perché ci facevamo strada col pennato e la falce. Poi imparai a
farcela in poco più di un’ora. Passavo vicino a due case sole. Coi vetri rotti,
abbandonate da poco. A tratti mi mettevo a correre per una vipera o per un
pazzo che viveva solo alla Rocca e mi gridava di lontano. Avevo undici anni.
Lei sarebbe morta di paura. Vede? ognuno ha le sue timidezze. Siamo pari
dunque. Ma solo se ognuno sta acasa sua. O se lei avesse bisogno di dar gli
esami da noi. Ma lei non ne ha bisogno.
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