da "Il figlio maschio" - Giuseppina Torregrossa
Concetta si accorse della tempesta che agitava l’animo del marito e cercò di rabbonirlo. Gli toccò il ginocchio, premette il braccio contro il suo, finché la tensione dei muscoli si sciolse e l’uomo sembrò acquietarsi quanto bastava per godersi il pranzo.
Don Turiddu amava stare seduto accanto alla moglie. Gli piaceva guardarne il profilo attraverso il fumo che saliva dal piatto e osservarla mentre mangiava. Le sue labbra si chiudevano attorno al cucchiaio con grazia, la gola bianca si sollevava in piccole onde morbide, i capelli ricci sfuggivano dal tuppo e svolazzavano nell’aria. Il petto prominente, nel cui solco si mischiavano sudore e briciole, si alzava e si abbassava con un ritmo costante. Quella donna era circondata da un’aura sensuale e lui, incapace di trattenersi, le infilò furtivo un dito tra i seni per asciugare una goccia birichina. Lei arrossì imbarazzata, farfugliò, ma i suoi occhi brillarono maliziosi. Sapeva che di lì a poco si sarebbero ritirati per il riposo pomeridiano, e ben altre gioie l’attendevano. Turi, così lo chiamava lei nell’intimità, possedeva un’energia primitiva e dava il meglio di sé alla controra. Concetta pregustava il piacere dilaniante di quell’amore che la faceva sentire fragile e potente al tempo stesso. Il cucchiaio le sfuggì di mano, le gambe le si ammollarono mentre una violenta onda calda si impossessava del suo ventre.
Finito di mangiare, don Turiddu bevve un bicchiere di vino tutto d’un fiato, si asciugò la bocca con la manica della giacca, quindi diede un colpo di schiena e scattò in piedi. La sedia cadde fragorosamente sul pavimento, la figlia Concettina lesta la tirò su.
«È ora» disse alla moglie.
«Ora è» gli fece eco lei e, ancheggiando, si mosse verso la stanza da letto. Lui la seguì soggiogato dai suoi fianchi larghi.
La notte precedente avevano discusso, colpa sempre di Filippo, e Concetta temeva che il marito gliela volesse far pagare. Infatti, appena chiusa la porta, lui la buttò sul letto, le sollevò la gonna e la penetrò senza né ahi né bai. Lei si dispiacque che non l’avesse accarezzata come al solito. “’Sto bifolco, entra e manco chiede permesso. Ora glielo faccio vedere io…” pensava, e per rappresaglia se ne stava rigida come un pisci stoccu. Ma non aveva fatto i conti con il suo corpo. Un fremito le si era insediato dentro fin dai primi colpi che il marito le aveva assestato, e lei già si scioglieva in ripetuti singulti, finché il cuore esplose nel suo petto. Dopo, credendo che lo sfogo avesse reso Turiddu più malleabile, fu lei a riprendere il discorso da dove l’avevano lasciato. Odiava perdere.
«Ma perché allora l’hai fatto studiare?» domandò con la voce che ancora vibrava. Talvolta il piacere si prolungava nel suo corpo per qualche minuto dopo aver fatto l’amore. Quel godimento autonomo la rendeva unica agli occhi del marito che, modestamente, ne aveva conosciute di fimmini!
«Perché l’istruzione ci vuole, altrimenti ti fanno fesso» bofonchiò mentre armeggiava per districarsi dai pantaloni che gli si erano arrotolati attorno alle ginocchia. «Ma la terra è un’altra cosa.»
Concetta scivolò sul bordo del letto a pancia sotto con l’intento di aiutarlo. Era un piccolo gesto di premura, uno dei tanti rituali a guardia della loro armonia. I suoi seni penzolarono nel vuoto. Turiddu veloce li afferrò maneggiandoli come pasta di pane lievitata.
«Ma se prendiamo un mezzadro, non è meglio?» si intestardì Concetta. Quando si trattava di Filippo agiva come una virrina. Lui l’agguantò per un braccio, la tenne ferma e le diede due sonore sculacciate sulle natiche nude. «Ora basta!» urlò esasperato. «Io sono il padre e io decido.» La colpì di nuovo. La moglie aprì le labbra in un mugolio di piacere.
Concetta si accorse della tempesta che agitava l’animo del marito e cercò di rabbonirlo. Gli toccò il ginocchio, premette il braccio contro il suo, finché la tensione dei muscoli si sciolse e l’uomo sembrò acquietarsi quanto bastava per godersi il pranzo.
Don Turiddu amava stare seduto accanto alla moglie. Gli piaceva guardarne il profilo attraverso il fumo che saliva dal piatto e osservarla mentre mangiava. Le sue labbra si chiudevano attorno al cucchiaio con grazia, la gola bianca si sollevava in piccole onde morbide, i capelli ricci sfuggivano dal tuppo e svolazzavano nell’aria. Il petto prominente, nel cui solco si mischiavano sudore e briciole, si alzava e si abbassava con un ritmo costante. Quella donna era circondata da un’aura sensuale e lui, incapace di trattenersi, le infilò furtivo un dito tra i seni per asciugare una goccia birichina. Lei arrossì imbarazzata, farfugliò, ma i suoi occhi brillarono maliziosi. Sapeva che di lì a poco si sarebbero ritirati per il riposo pomeridiano, e ben altre gioie l’attendevano. Turi, così lo chiamava lei nell’intimità, possedeva un’energia primitiva e dava il meglio di sé alla controra. Concetta pregustava il piacere dilaniante di quell’amore che la faceva sentire fragile e potente al tempo stesso. Il cucchiaio le sfuggì di mano, le gambe le si ammollarono mentre una violenta onda calda si impossessava del suo ventre.
Finito di mangiare, don Turiddu bevve un bicchiere di vino tutto d’un fiato, si asciugò la bocca con la manica della giacca, quindi diede un colpo di schiena e scattò in piedi. La sedia cadde fragorosamente sul pavimento, la figlia Concettina lesta la tirò su.
«È ora» disse alla moglie.
«Ora è» gli fece eco lei e, ancheggiando, si mosse verso la stanza da letto. Lui la seguì soggiogato dai suoi fianchi larghi.
La notte precedente avevano discusso, colpa sempre di Filippo, e Concetta temeva che il marito gliela volesse far pagare. Infatti, appena chiusa la porta, lui la buttò sul letto, le sollevò la gonna e la penetrò senza né ahi né bai. Lei si dispiacque che non l’avesse accarezzata come al solito. “’Sto bifolco, entra e manco chiede permesso. Ora glielo faccio vedere io…” pensava, e per rappresaglia se ne stava rigida come un pisci stoccu. Ma non aveva fatto i conti con il suo corpo. Un fremito le si era insediato dentro fin dai primi colpi che il marito le aveva assestato, e lei già si scioglieva in ripetuti singulti, finché il cuore esplose nel suo petto. Dopo, credendo che lo sfogo avesse reso Turiddu più malleabile, fu lei a riprendere il discorso da dove l’avevano lasciato. Odiava perdere.
«Ma perché allora l’hai fatto studiare?» domandò con la voce che ancora vibrava. Talvolta il piacere si prolungava nel suo corpo per qualche minuto dopo aver fatto l’amore. Quel godimento autonomo la rendeva unica agli occhi del marito che, modestamente, ne aveva conosciute di fimmini!
«Perché l’istruzione ci vuole, altrimenti ti fanno fesso» bofonchiò mentre armeggiava per districarsi dai pantaloni che gli si erano arrotolati attorno alle ginocchia. «Ma la terra è un’altra cosa.»
Concetta scivolò sul bordo del letto a pancia sotto con l’intento di aiutarlo. Era un piccolo gesto di premura, uno dei tanti rituali a guardia della loro armonia. I suoi seni penzolarono nel vuoto. Turiddu veloce li afferrò maneggiandoli come pasta di pane lievitata.
«Ma se prendiamo un mezzadro, non è meglio?» si intestardì Concetta. Quando si trattava di Filippo agiva come una virrina. Lui l’agguantò per un braccio, la tenne ferma e le diede due sonore sculacciate sulle natiche nude. «Ora basta!» urlò esasperato. «Io sono il padre e io decido.» La colpì di nuovo. La moglie aprì le labbra in un mugolio di piacere.
Nessun commento:
Posta un commento