Fernando Botero - Sala da pranzo
Luigi Pirandello – Il signore della nave
Giuro che non ho voluto offendere
il signor Lavaccara né una volta né due, come in paese si va dicendo.
Il signor Lavaccara mi volle
parlare d’un suo porco per convincermi ch’era una bestia intelligente.
Io allora gli domandai:
– Scusi, è magro?
Ed ecco che il signor Lavaccara
mi guardò una prima volta come se con questa domanda non propriamente lui ma
avessi voluto offendere quella sua bestia.
Mi rispose:
– Magro? Peserà piú d’un
quintale!
E io allora gli dissi:
– Scusi, e le pare che possa
essere intelligente?
Del porco si parlava. Il signor
Lavaccara, con tutta quella rosea prosperità di carne che gli tremola addosso,
credette che io dopo il porco ora volessi offendere lui, come se in genere
avessi detto che la grassezza esclude l’intelligenza. Ma del porco, ripeto, si
parlava Non doveva dunque farsi così brutto il signor Lavaccara né domandarmi:
– Ma allora io, secondo lei?
M’affrettai a rispondergli:
– O che c’entra lei, caro signor
Lavaccara? È forse un porco lei? Mi scusi. Quando lei mangia col bello appetito
che Dio le conservi sempre, per chi mangia lei? mangia per sè, non ingrassa
mica per gli altri. Il porco, invece, crede di mangiare per sè e ingrassa per
gli altri.
Mica rise. Niente. Mi restò lì
piantato e duro davanti, piú brutto di prima. E io allora, per smuoverlo,
soggiunsi con premura:
– Poniamo, poniamo, caro signor
Lavaccara, che lei con la sua bella intelligenza fosse un porco, mi scusi.
Mangerebbe lei? Io no. Vedendomi portare da mangiare, io grugnirei, inorridito:
«Nix! Ringrazio, signori. Mangiatemi magro!». Un porco che sia grasso vuol dire
che questo ancora non l’ha capito; e se non ha capito questo, può mai essere
intelligente? Perciò le ho domandato se il suo era magro. Lei m’ha risposto che
pesa piú d’un quintale; e allora mi scusi, caro signor Lavaccara, sarà un bel
porco il suo, non dico, ma non è certo un porco intelligente.
Spiegazione piú chiara di questa
mi sembra che non avrei potuto dare al signor Lavaccara. Ma non ha valso a
nulla. Anzi è certo che ho fatto peggio; me ne sono accorto parlando. Più mi
sforzavo di render chiara la spiegazione e piú il signor Lavaccara si scuriva
in viso, masticando:
– Già... già...
Perché certo gli è parso che io,
facendo ragionare quella sua bestia come un uomo, o meglio, pretendendo che
quella sua bestia ragionasse come un uomo, non intendessi mica parlare della
bestia, ma di lui.
È così. So difatti che il signor
Lavaccara va portando in giro il mio discorso per farne risaltare la fatuità
agli occhi di tutti, perchè tutti gli dicano che non avrebbe senso quel mio
discorso riferito a una bestia la quale anch’essa crede di mangiare per sé e
non può sapere che gli altri la facciano ingrassare per conto loro; e se un
porco è nato porco che può farci? per forza come un porco deve mangiare, e dire
che non dovrebbe e dovrebbe rifiutare il pasto per farsi mangiar magro è una
sciocchezza, perché un tal proposito a un porco non può mai venire in mente.
Siamo perfettamente d’accordo. Ma
se me l’ha cantato lui, santo Dio, il signor Lavaccara. lui in tutti i toni, che
quella sua bestia la parola sola le mancava! Io gli ho voluto dimostrare
appunto che non poteva averla e non l’aveva per sua fortuna questa famosa
intelligenza umana; perché un uomo si, può permetterselo il lusso di mangiare
come un porco, sapendo che alla fine, ingrassando, non sarà scampato; ma un
porco no, no e no. Perdio, mi sembra così chiaro!
Offendere? ma che offendere! io
ho voluto anzi difendere contro sé stesso il signor Lavaccara e conservargli
intero il mio rispetto e levargli fin l’ombra del rimorso d’aver venduto quella
sua bestia perché fosse scannata alla festa del Signore della Nave. Se no, alle
corte: m’arrabbio sul serio e dico al signor Lavaccara che, o il suo porco era
un porco qualunque e non aveva questa famosa intelligenza umana che lui va
dicendo, o il vero porco è lui, il signor Lavaccara; e ora lo offendo per
davvero
Questione di logica, signori. E
poi qui è in ballo la dignità umana che mi preme salvare ad ogni costo, e non
potrei salvarla se non a patto di convincere il signor Lavaccara e tutti quelli
che gli danno ragione, che i porci grassi non possono essere intelligenti,
perché se questi porci parlano tra sì come il signor Lavaccara pretende e va
dicendo, non essi, ma la dignità umana appunto sarebbe scannata in questa festa
del Signore della Nave.
Veramente non so che relazione ci
sia tra il Signore della Nave e la scanna dei porci che si suole iniziare il
giorno della sua festa. Penso che, siccome d’estate la carne di queste bestie è
nociva, tanto che se ne proibisce la macellazione, e con l’autunno il tempo
comincia a rinfrescare, si colga l’occasione della festa del Signore della
Nave, che cade appunto in settembre, per festeggiare anche, come suol dirsi, le
nozze di quell’animale. In campagna perché il Signore della Nave si festeggia
nell’antica chiesetta normanna di San Nicola, che sorge un buon tratto fuori
del paese, a una svolta dello stradone, tra i campi.
Ci dov’essere, se si chiama così
questo Signore, qualche storia o leggenda ch’io non so. Ma certo è un Cristo che,
chi lo fece, piú Cristo di così non lo poteva fare, ci si mise addosso con una
tale ferocia di farlo Cristo, che nei duri stinchi inchiodati su la rozza croce
nera, nelle costole che gli si possono contare tutte a una a una, tra i
guidaleschi e le lividure, non un’oncia di carne gli lasciò che non apparisse
atrocemente martoriata. Saranno stati i giudei su la carne viva di Cristo; ma
qui fu lui, lo scultore. Quando però si dice, esser Cristo e amare l’umanità!
Pur trattato così, fa miracoli senza fine questo Signore della Nave, come si
può vedere dalle cento e cento offerte di cera e d’argento e dalle tabelle
votive che riempiono tutta una parete della chiesetta; ogni tabella col suo
mare blu in tempesta, che non potrebbe essere piú blu di così, e il naufragio
della barchetta col nome scritto bello grosso a poppa che ciascuno possa
leggerlo bene, e insomma ogni cosa, tra nuvole squarciate, e questo Cristo che
appare alle supplicazioni dei naufraghi e fa il miracolo.
Basta. Io intanto con la
discussione su l’intelligenza e la grassezza del porco e il deplorabilissimo
malinteso a cui questa discussione ha dato luogo, ho perduto l’invito del
signor Lavaccara alla festa.
Non me ne dolgo tanto per il
piacere che mi è mancato, quanto per lo sforzo che ho dovuto fare, assistendo
solo da curioso alla festa, per conservare il rispetto a tante brave persone e
salvare, come ho detto, la dignità umana.
Dico la verità. Dati i sani
criteri di cui mi sento ormai profondamente compenetrato, non credevo mi
dovesse costar molto. Ma alla fine, con l’ajuto di Dio, ci sono riuscito.
Quando, la mattina, tra la
polvere dello stradone ho veduto i branchi e branchetti di tutti quei
porcelloni cretacei avviarsi ballonzolanti e grufolanti al luogo della festa,
ho voluto guardarli apposta a uno a uno attentamente.
Bestie intelligenti, quelle? Ma
via! Con quel grugno lì? con quelle orecchie? con quel buffo cosino
arricciolato dietro? E grugnirebbero così, se fossero intelligenti? Ma se è la
voce della stessa ingordigia, quel loro grugnito! Ma se grufolavano finanche
nella polvere dello stradone! fino all’ultimo, senza il minimo sospetto che tra
poco sarebbero stati scannati. Si fidavano dell’uomo? Ma grazie tante di questa
fiducia! Come se l’uomo, da che mondo è mondo e ha pratica coi porci, non
avesse sempre dimostrato al porco di appetirne la carne; e che esso perciò non
deve affatto fidarsi di lui! Perdio, se l’uomo arriva finanche ad assaggiargli
addosso, da vivo, le orecchie e il codino! Meglio di così? Che se poi vogliamo
chiamar fiducia la stupidità, siamo logici in nome di Dio, e non diciamo che i
porci sono bestie intelligenti.
Ma scusate, e se non se lo
dovesse mangiare, che obbligo avrebbe l’uomo d’allevare il porco con tanta
cura, fargli da servo, lui carne battezzata, condurselo al pascolo, perché? che
servizio gli rende in compenso del cibo che n’ha? Nessuno vorrà negare che il
porco, finché campa, campa bene. Considerando la vita che ha fatto, se poi è
scannato se ne deve contentare, perché certo per sé, come porco, non se la
meritava.
E passiamo agli uomini, signori
miei! Ho voluto osservarli apposta anch’essi a uno a uno, mentre s’avviavano al
luogo della festa.
Che altro aspetto, signori miei!
Il dono divino dell’intelligenza
traspariva anche dai minimi atti: dal fastidio con cui voltavano la faccia per
non prendersi il polverone sollevato dai branchi di quelle bestie, e dal
rispetto con cui poi si salutavano l’un l’altro.
Ma l’aver pensato di coprir di
panni l’oscena nudità del corpo, già questo solo, considerate a quale altezza
colloca l’uomo sopra uno schifosissimo porco. Potrà mangiare fino a schiattarne
e anche imbrodolarsi tutto, un uomo; ma poi ha questo, che si lava e si veste.
E quand’anche li immaginassimo nudi per lo stradone, uomini e donne; cosa
impossibile, ma ammettiamola pure, non dico che sarebbe un bel vedere, le
vecchie, i panciuti, i non puliti; tuttavia, che differenza, pensate, anche a
guardar soltanto alla luce dell’occhio umano, specchio dell’anima, e al dono
del sorriso e della parola.
E i pensieri che ciascuno, pur
andando alla festa, aveva in mente; forse non del padre o della madre, ma di
qualche amico o della nipote o dello zio, che lo scorso anno partecipavano
anche loro allegri alla festa campestre. bevevano anche loro quella bell’aria
aperta, e adesso, rinserrati nel bujo sottoterra, poverini... Sospiri,
rimpianti e anche qualche rimorso. Ma sì! Non erano tutti lieti quei visi; la
promessa del godimento di una giornata grassa non spianava su la fronte di
tanti magri le rughe delle cure opprimenti e i segni delle fatiche e delle
sofferenze. E parecchi compassionevolmente portavano a quella festa d’un giorno
la loro miseria di tutto l’anno, per provare se trovasse piú il verso, là tra
tanti sanguigni ben pasciuti, d’aprire i denti gialli a uno squallido sorriso.
E poi pensavo a tutte le arti, a
tutti i mestieri a cui quegli uomini attendevano con tanto studio, con tanti
travagli e tanti rischi, che i porci certamente non conoscono. Perché un porco
è porco e basta; ma un uomo, no, signori, potrà anche esser porco, non dico, ma
porco e medico, per esempio, porco e avvocato, porco e professore di belle
lettere e filosofia, e notajo e cancelliere e orologiajo e fabbro... Tutti i
lavori, le afflizioni, le cure dell’umanità vedevo con soddisfazione rappresentati
in quella folla che procedeva per lo stradone.
A un certo punto, il signor
Lavaccara, reggendo per mano, uno di qua, uno di là, i due figliuoli piú
piccoli, m’è passato davanti, con la moglie dietro, rosea e prosperosa come
lui, tra le due figliuole maggiori. Tutti e sei han fatto finta di non vedermi;
ma le due figliuole, tirando via di lungo, si sono tutte invermigliate e uno
dei piccini, dopo pochi passi, s’è voltato tre volte a sbirciarmi. La terza
volta, così per ridere, io ho cacciato fuori la lingua e l’ho salutato di
nascosto con la mano; s’è fatto serio serio, con un viso lungo lungo distratto
e s’è subito messo a guardare altrove.
Mangerà il porco anche lui,
povero piccino; forse ne mangerà troppo; ma speriamo che non gli faccia male.
Quand’anche però gli dovesse far male, la previdenza umana c’è pure per qualche
cosa. Andate a cercarla nei porci, la previdenza; trovatemi un porco farmacista
che prepari con l’alchermes l’olio di ricino per i porcellini che si siano
guastati lo stomaco per intemperanza!
Ho seguito da lontano, per un
buon tratto, la cara famigliuola del signor Lavaccara che si avviava
sicuramente incontro a un solennissimo guasto di stomaco; ma ecco che mi son
potuto consolare pensando che domani troverà da un farmacista la purghetta che
li guarirà.
Quante baracche improvvisate con
grandi lenzuola palpitanti, nello spiazzo davanti la chiesa di San Nicola,
attraversato dallo stradone!
Taverne all’aperto; tavole,
tavole e panche; caratelli e barili di vino; fornelli portatili; banchi e ceppi
di macellai.
Un velo di fumo grasso misto alla
polvere annebbiava lo spettacolo tumultuoso della festa; ma pareva che non
tanto quella grassa fumicaja, quanto lo stordimento cagionato dalla confusione
e dal baccano impedisse di vedere chiaramente.
Non erano però grida giulive, di
festa, ma grida strappate dalla violenza d’un ferocissimo dolore. Oh
sensibilità umana! I venditori ambulanti, gridando la loro merce; i tavernai,
invitando alle loro mense apparecchiate; i macellai, ai loro banchi di vendita,
intonavano il bando, senza forse saperlo, su le strida terribili dei porci che
là stesso, in mezzo alla folla, erano macellati, sparati, scorticati,
squartati. E le campane della gentile chiesina ajutavano le voci umane,
rintronando all’impazzata, senza posa, a coprire pietosamente quelle strida.
Voi dite: ma perché almeno non si
macellavano lontano dalla folla tutti quei porci? E io vi rispondo: ma perché
la festa allora avrebbe perduto uno dei suoi caratteri tradizionali, forse il
suo primitivo carattere sacro, d’immolazione.
Voi non pensate al sentimento
religioso, signori.
Ho visto tanti impallidire,
turarsi con le mani gli orecchi, torcere il viso per non vedere l’accoratojo
brandito cacciarsi nella gola del porco convulso tenuto violentemente da otto
braccia sanguinose smanicate, e per dir la verità, ho torto il viso anch’io, ma
lamentando dentro di me amaramente che l uomo a mano a mano, col progredire
della civiltà, si fa sempre piú debole, perde sempre più, pur cercando di
acquistarlo meglio, il sentimento religioso. Seguita, sì, a mangiarsi il porco;
volentieri assiste alla manifattura delle salsicce, alla lavatura della corata
al taglio netto del fegato lucido compatto tremolante; ma torce poi il viso
all’atto dell’immolazione. E certo è ormai cancellato il ricordo dell’antica
Maja, madre del dio Mercurio, da cui il porco ripete il suo secondo nome.
Ho rivisto sul tardi il signor
Lavaccara, sudato e stravolto, senza giacca, recando tra le mani un gran piatto
bislungo, avviarsi, seguito dai due piccini, al banco del macellajo al quale
aveva venduta quella sua bestia intelligente. Andava a riceverne – patto della
vendita – la testa e tutto il fegato.
Anche questa volta, ma con piú
ragione, il signor Lavaccara ha finto di non vedermi. Uno dei due piccini
piangeva; ma voglio credere che non piangesse per la prossima vista della
pallida testa insanguinata della cara grossa bestia carezzata per circa due
anni nel cortile della casa. La contemplerà il padre quella testa dalle larghe
orecchie abbattute, dagli occhi gravemente socchiusi tra i peli, per lodarne
forse, con rimpianto ancora una volta, l’intelligenza, e per questa maledetta
ostinazione si guasterà il piacere di mangiarsela.
Ah mi avesse invitato a tavola
con lui! Mi sarei risparmiato certamente il grande affanno di vedere, io solo a
digiuno, io solo con gli occhi non offuscati dai vapori del vino, tutta quella
umanità, degna di tanta considerazione e di tanto rispetto, ridursi a poco a
poco in uno stato miserando, senza piú neppure un’ombra di coscienza, senza la
piú lontana memoria delle innumerevoli benemerenze che in tanti secoli ha
saputo acquistarsi sopra le altre bestie della terra con le sue fatiche e con
le sue virtù.
Scamiciati gli uomini, discinte
le donne; teste ciondolanti, facce paonazze, occhi imbambolati, danze folli tra
tavole capovolte, panche rovesciate, canti sguajati, falò, spari di mortaretti,
urli di bimbi, risa sgangherate. Un pandemonio sotto le rosse nubi dense e
gravi del tramonto, sopravvenute quasi con spavento.
Sotto queste nubi divenute a mano
a mano piú cupe e fumolente, ho veduto poco dopo, al richiamo delle campane
sante, raccogliersi alla meglio tra spinte e urtoni tutta quella folla ubriaca,
e imbrancarsi in processione dietro a quel terribile Cristo flagellato su la
croce nera, tratto fuori dalla chiesa, sorretto da un chierico pallido e
seguito da alcuni preti digiuni, col camice e la stola.
Due porcelloni. per loro somma
ventura scampati al macello, sdrajati a piè d’un fico, vedendo passare quella
processione, m’è parso si guardassero tra loro come per dirsi:
– Ecco, fratello, vedi? e poi
dicono che i porci siamo noi.
Mi sentii fino all’anima ferire
da quello sguardo, e fissai anch’io la folla ubriaca che mi passava davanti. Ma
no, no, ecco – oh consolazione! – vidi che piangeva, piangeva tutta quella
folla ubriaca, singhiozzava, si dava pugni sul petto, si strappava i capelli
scarmigliati, cempennando, barellando dietro a quel Cristo flagellato S’era
mangiato il porco, sì, s’era ubriacata, è vero, ma ora piangeva disperatamente
dietro a quel suo Cristo, l’umanità.
– Morire scannate è niente, o
stupidissimo bestie! – io allora esclamai, trionfante. – Voi, o porci, la
passate grassa e in pace la vostra vita, finché vi dura. Guardate questa degli
uomini adesso! Si sono imbestiati, si son ubriacati, ed eccoli qua che piangono
ora inconsolabilmente, dietro a questo loro Cristo sanguinante su la Croce
nera! eccoli qua che piangono il porco che si son mangiato! E volete una
tragedia piú tragedia di questa?
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