Fernando Botero - Picnic
da Afrodita
– Isabel Allende
Colomba nella natura
E già che stiamo parlando di bucoliche verdure, viene a proposito la
storia vera di una mia amica, della quale ometterò il nome per evitare che mi
ammazzi. Chiamiamola Colomba. Ai tempi era una ragazza rubiconda, dalle
abbondanti carne rosate e lentigginose, con una chiome di quel colore rossiccio
che divenne di moda nel Risorgimento con Tiziano e che oggi si ottiene con gli
shampoo. I suoi delicati piedi da ninfs reggevano a stento le imponenti colonne
dell gambe, le natiche turbolente, i
perfetti meloni dei seni, il collo con le due sensuali pappagorge e le rotonde
braccia da valchiria. Come spesso succede in questi casi, la mia paffuta amica
era vegetariana. (Per fare a meno della crne questa gente si riempie di
carboidrati.) Il suo professore di Storia dell’arte all’università non poteva
staccarle gli occhi di dosso, pazzamente invaghito com’era della sua pelle
color latte, della chioma veneziana, dei rotolini di ciccia, delle piccole
cavità che spuntavano dalle maniche e di altre che lui immaginava nel tormento
delle sue notti insonni in un letto matrimoniale, con la sua sposa alta e
secca, una di quelle signore distinte che stanno bene con qualsiasi vestito.
(Le detesto.) Il poveruomo mise le sue conoscenze al servizio della sua
ossessione e tanto le parlò del Ratto delle sabine di Rubens, del Bacio
di Rodin degli Amanti di Picasso e delle Bagnanti di Renoir,
Tnti furono i capitoli dell’Amante di Lady Chatterley che le lesse ad
alta voce e tante le scatole di cioccolatini che le mise in grembo, che alla
fine Colomba, che pur femmina era, accettò l’invito per una gita in campagna.
C’è forse qualcosa di più innocente? Ah! Ma il professore non era certo uno che
si lasciasse scappare un’opportunità come quella. Ordì le sue trame quasi fosse
Machiavelli. Dedusse che lei non avrebbe mai accettato di accompagnarlo in un
hotel al primo appuntamento e forse un secondo non ci sarebbe stato: doveva
giocarsi le sue carte con un colpo secco, e magistrale. Poteva fare affidamento
soltanto su una Due Cavalli, una di quelle macchine di latta pitturata che
negli anni sessanta i francesi resero economicamente abbordabili, un’automobile
che sembrava un incrocio tra una scatola di biscotti e una sedia a rotelle, in
cui solo un contorsionista nano poteva pensare di fare l’amore. Sedurre una
persona della stazza di Colomba su una Due Cavalli era un’impresa impossibile.
Il picnic rappresentava una soluzione romantica e pratica al tempo stesso. La
strategia consisteva nell’attaccare il fronte più sguarnito delle difese
dell’alunna: la golosità. Verificò con mille pretesti e giri di parole quali
fossero i piatti preferiti dell’amata e, senza farsi scoraggiare dalla
questione vegetariana, riempì una graziosa cesta di ghiottonerie afrodisiache:
due bottiglie del miglior vino rosé ben freddo, uova sode, pane casereccio,
quiche di funghi, insalata di sedano e avocado, carciofi, mais tenero
arrostito, frutta aromatica di stagione e ogni sorta di dolce. In appoggio, nel
caso in cui ci fosse stato bisogno di ricorrere a estremi rimedi, c’era una
piccola scatola di caviale beluga che gli era costata mezzo stipendio, un
barattolo di marron glacé sciroppati e due spinelli.
Era un tipo meticoloso, dell Vergine, e quindi si portò anche un
cuscino, un plaid e un isetticida.
in un angolo di Plaza de los Libertadores lo attendeva Colomba, tutta
vestita di mussola bianca, incooronata da un cappello di paglia italiana
guarnito da un grande nastro di seta. Da lontana sembrava un veliero, e da
vicino anche. Quando il professore la vide, sentì dileguarsi il peso degli
anni, il ricordo della sua distinta consorte e la paura delle conseguenze; al
mondo non esisteva che quella carne deliziosa avvolta nella mussola che tremava
al minimo movimento, scatenandogli una lussuria selvaggia di cui lui stesso non
sapeva capacitarsi. Dopo tutto era un accademico, un uomo di lettere, uno
studioso d’arte, un marito, un teorico. Di lussuria, fino a quel momento, non
sapeva nulla. Colomba scalò a fatica la fragile Due Cavalli, che si inclinò
pericolosamente e che per un attimo sembrò aver sotterrato per sempre i
pneumatici nell’asfalto, ma dopo qualche brontolio il nobile veicolo si mise in
movimento e iniziò a far girare le ruote in direzione della periferia della
città. Durante il tragitto parlarono d’arte e di cibo, più del secondo che
della prima. E così, rapiti dalla conversazione e quello splendido mezzogiorno,
alla fine giunsero alla meta che il professore aveva preventivamente scelto, un
bel pascolo verde vicino a un ruscello fiancheggiato da salici piangenti. Era
un luogo solitario, e gli unici testimoni dei loro amori sarebbero stati gli
uccellini sui rami e una mucca distratta che ruminava fiori a una certa
distanza. Il professore saltò giù dalla Due Cavalli e così fece Colomba, se pur
con qualche difficoltà. Mentre lui, diligente, si affannava a stendere la
tovaglia all’ombra, a sistemare il cuscino e a dispiegare i tesori della cesta,
la sua allieva si era tolta le scarpe e saltellava timorosa sulle rive del
ruscello. Una visione celestiale.
Il professore non tardò molto a far accomodare Colomba sul plaid, a
farla adgiare sul cuscino e a distendere davanti a lei le saporite prelibatezze
della cesta. versò il vino per rinfrescarla e sbucciò un uovo sodo che poi le
fece mordicchiare, mentre giocava con le dita dei suoi piedi rotondetti e
recitava:
Pollice
comprò un ovetto,
Indice lo
pelò,
Medio ci
mise il sale,
Anulare lo
mescolò
e Mignolo,
ahi se lo pappò!
Colomba rideva a crepapelle e il professore, incoraggiato, procedette
alla somministrazione delle foglie di carciofo, una alla volta, e quando ne
ebbe mangiati due, paasò alla quiche ai funghi e poi alle fragole, e subito
dopo ai fichi e all’uva, senza mai smettere di punzecchiarla con toccatine qua
e là e di recitarle, sudando per l’impazienza, i versi più appassionati di
Pablo Neruda.
Tra il sole, il vino, la poesia e lo spinello che accese non appena
ebbero finito anche l’ultimo chicco di caviale sotto lo sguardo impavido della
ucca che si era avvicinata al teatro delle operazioni, la testa di Colomba
prese a girare. Erano a questo punto quando fecero la loro apparizione le prime
formiche, attese con impazienza dal professore: erano il pretesto di cui aveva
bisogno. Giurò a Colomba che dietro le formiche inevitabilmente sarebbero
giunte le api e le zanzare, ma non doveva temere perché proprio per quello si
erano portati il liquido repellente. E le i non voleva certamente macchiare di
insetticida quel meraviglioso abito… Non si ricordava di quel celbre quadro
impressionista, Le dejuner su l’herbre, di quel picnic in cui le donne
erano nude e gli uomini vestiti’ No, Colomba non sapeva di cosa stesse
parlando, e lui dovette quibdi descriverglielo nel dettaglio, approfittando per
aprirre uno a uno i bottoni del vestito di mussola.
Riassumendo, diciamo pure che Colomba nel giro di poco si trovò priva
dei suoi veli mentre il sole accarezzava le terse colline del suo corpo
voluttuoso. Si portava alla bocca i marron glacé sciroppati senza preoccuparsi
del filo di succo che le correva dal mento ai seni, traccia che il professore
seguiva ansimando con gli occhi fuori dalle orbite, fino a che non riuscì più a
resistere e si gettò su quella montagns di carne luminosa e palpitante, disposto
a leccare il dolce e qualsiasi altra cosa fosse alla sua portata, strappandosi
letteralmente di doddo gli abiti, come un indemoniato, ritrovandosi nudo.
Colomba era piegata in due per il solletico, morta dal ridere – non
aveva mai visto un omino così magro e peloso con un cetriolo tanto gagliardo -,
ma non apriva le gambe, anzi, si ritraeva con dinieghi deliziosi nelle
intenzioni, che però, considerata la sua stazza, sembravano piuttosto delle
vere e proprie respinte elefantine. Alla fine riuscì a liberarsi dal goffo
abbraccio del professore di Storia dell’arte e si mise a correre, provocandolo
e ridendo, come quelle mitologiche creature dei boschi che appaiono sempre
accompagnate da fauni. E sembrava proprio un fauno, il professore che cercava
di raggiungerla…
Nel frattempo la mucca, che non era una mucca ma un toro, decise che ne
aveva abbastanza di quella baldoria sul suo pascolo e si lanciò
all’inseguimento degli amanti i quali, sentendosi il possente animale alle
costole, si misero a correre come due dannati per cercare rifugio in un bosco
vicino.
Dovettero passare diverse ore prima che il toro decidesse di
allontanarsi quanto bastava per permettere agli sfortunati escursionisti, nudi
e tremanti, di tornare indietro.
L’effetto della marijuana, del vino, del soletico e del cibo era ormai
sfumato da tempo, Colomba, isterica, profferiva insulti e minacce mentre il
terrorizzato professore, che si copriva l’avvizzito cetriolo con le mani,
cercava inutilmente di tranquillizzarla con versi di Rubé Darìo. Una volta
raggiunto il luogo del picnic, scoprirono che tutti i vestiti e la macchina
erano stati rubati. Vicino al salice piangente su cui gorgheggiavano gli
uccelli rimaneva soltanto il cappello di paglia italiana…
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