12 dicembre 2017

da Il nome della rosa – Umberto Eco

fotogramma da Il nome della Rosa di Jean-Jaques Arnaud

da Il nome della rosa – Umberto Eco

(…)

Anni dopo, già uomo assai maturo, ebbi occasione di compiere un viaggio in Italia su mandato del mio Abate. Non resistetti alla tentazione e al ritorno feci una lunga deviazione per rivisitare quello che era rimasto dell’abbazia.

I due villaggi alle falde del monte si erano spopolati, le terre intorno erano incolte. Salii sino al pianoro e uno spettacolo di desolazione e di morte si presentò ai miei occhi inumiditi di pianto.

Delle grandi e magnifiche costruzioni che adornavano quel luogo, erano rimaste sparse rovine, come era già accaduto dei monumenti degli antichi pagani nella città di Roma. L’edera aveva ricoperto i brandelli dei muri, le colonne, i radi architravi rimasti intatti. Erbe selvatiche invadevano il terreno per ogni dove, e non si capiva neppure dove fossero stati un tempo l’orto e il giardino. Solo il luogo del cimitero era riconoscibile, per alcune tombe che ancora affioravano dal terreno. Unico cenno di vita, alti uccelli da preda cacciavano lucertole e serpenti che, come basilischi, si acquattavano tra le pietre o guizzavano sui muri. Del portale della chiesa erano rimaste poche vestigia corrose di muffa. Il timpano sopravviveva per metà e vi scorsi ancora, dilatato dalle intemperie e languido di luridi licheni, l’occhio sinistro del Cristo in trono, e qualcosa del volto del leone.

L’Edificio, tranne il muro meridionale, diroccato, sembrava ancora stare in piedi e sfidare il corso del tempo. I due torrioni esterni, che davano sullo strapiombo, parevano quasi intatti, ma dappertutto le finestre erano occhiaie vuote le cui lacrime vischiose eran rampicanti putridi. Nell’interno l’opera dell’arte, distrutta, si confondeva con quella della natura e per vasti tratti dalla cucina l’occhio correva al cielo aperto, attraverso lo squarcio dei piani superiori e del tetto, diruti abbasso come angeli caduti. Tutto ciò che non era verde di muschio era ancora nero dal fumo di tanti decenni prima.

Rovistando tra le macerie trovavo a tratti brandelli di pergamena, precipitati dallo scriptorium e dalla biblioteca e sopravvissuti come tesori sepolti nella terra; e incominciai a raccoglierli, come se dovessi ricomporre i fogli di un libro. Poi mi avvidi che da uno dei torrioni saliva ancora, pericolante e quasi intatta, una scala a chiocciola allo scriptorium, e di lì, inerpicandosi per un pendio di macerie, si poteva arrivare all’altezza della biblioteca: la quale era però soltanto una sorta di galleria rasente le mura esterne, che dava in ogni punto sul vuoto.

Lungo un tratto di muro trovai un armadio, ancora miracolosamente ritto lungo la parete, non so come sopravvissuto al fuoco, marcio d’acqua e di insetti. Dentro vi stava ancora qualche foglio. Altri lacerti trovai frugando le rovine da basso. Povera messe fu la mia, ma passai una intera giornata a raccoglierla, come se da quelle disiecta membra della biblioteca dovesse pervenirmi un messaggio. Alcuni brandelli di pergamena erano scoloriti, altri lasciavano intravvedere l’ombra di una immagine, a tratti il fantasma di una o più parole. Talora trovai fogli su cui erano leggibili intere frasi, più facilmente rilegature ancora intatte, difese da quelle che erano state borchie di metallo… Larve di libri, apparentemente ancora sane di fuori ma divorate all’interno: eppure qualche volta si era salvato un mezzo foglio, traspariva un incipit, un titolo…

Raccolsi ogni reliquia che potei trovare, e ne empii due sacche da viaggio, abbandonando cose che mi erano utili pur di salvare quel misero tesoro.

Lungo il viaggio di ritorno e poi a Melk passai molte e molte ore a tentar di decifrare quelle vestigia. Spesso riconobbi da una parola o da una immagine residua di quale opera si trattasse. Quando ritrovai nel tempo altre copie di quei libri, li studiai con amore, come se il fato mi avesse lasciato quel legato, come se l’averne individuato la copia distrutta fosse stato un segno chiaro del cielo che diceva tolle et lege. Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si disegnò come una biblioteca minore, segno di quella maggiore scomparsa, una biblioteca fatta di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri.


Più rileggo questo elenco più mi convinco che esso è effetto del caso e non contiene alcun messaggio. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come un oracolo, e ho quasi l’impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone, un carme a figura, un immenso acrostico che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia. Ma quale delle due venture si sia data, più recito a me stesso la storia che ne è sortita, meno riesco a capire se in essa vi sia una trama che vada al di là della sequenza naturale degli eventi e dei tempi che li connettono. Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti, o nessuno.

Ma questa mia inabilità a vedere è forse effetto dell’ombra che la grande tenebra che si avvicina sta gettando sul mondo incanutito.

Est ubi gloria nunc Babylonia? Dove sono le nevi di un tempo? La terra danza la danza di Macabré, mi sembra a tratti che il Danubio sia percorso da battelli carichi di folli che vanno verso un luogo oscuro.

Non mi rimane che tacere. O quam salubre, quam iucundum et suave est sedere in solitudine et tacere et loqui cum Deo! Tra poco mi ricongiungerò col mio principio, e non credo più che sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato gli abati del mio ordine, o di gioia, come credevano i minoriti di allora, forse neppure di pietà. Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier… Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, nell’intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera né immagine.



Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.




Rosa que al prado, encarnada,

te ostentas presuntuosa

de grana y carmín banada:

campa lozana y gustosa;

pero no, que siendo hermosa

también seràs desdichada.

Juana Inés de la Cruz



Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980
 

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