fotogramma da Il nome della Rosa di Jean-Jaques Arnaud
da Il nome della rosa
– Umberto Eco
(…)
Anni dopo, già uomo assai maturo, ebbi
occasione di compiere un viaggio in Italia su mandato del mio Abate. Non
resistetti alla tentazione e al ritorno feci una lunga deviazione per
rivisitare quello che era rimasto dell’abbazia.
I due villaggi alle falde del monte si
erano spopolati, le terre intorno erano incolte. Salii sino al pianoro e uno
spettacolo di desolazione e di morte si presentò ai miei occhi inumiditi di
pianto.
Delle grandi e magnifiche costruzioni
che adornavano quel luogo, erano rimaste sparse rovine, come era già accaduto
dei monumenti degli antichi pagani nella città di Roma. L’edera aveva ricoperto
i brandelli dei muri, le colonne, i radi architravi rimasti intatti. Erbe
selvatiche invadevano il terreno per ogni dove, e non si capiva neppure dove
fossero stati un tempo l’orto e il giardino. Solo il luogo del cimitero era
riconoscibile, per alcune tombe che ancora affioravano dal terreno. Unico cenno
di vita, alti uccelli da preda cacciavano lucertole e serpenti che, come
basilischi, si acquattavano tra le pietre o guizzavano sui muri. Del portale
della chiesa erano rimaste poche vestigia corrose di muffa. Il timpano
sopravviveva per metà e vi scorsi ancora, dilatato dalle intemperie e languido
di luridi licheni, l’occhio sinistro del Cristo in trono, e qualcosa del volto
del leone.
L’Edificio,
tranne il muro meridionale, diroccato, sembrava ancora stare in piedi e sfidare
il corso del tempo. I due torrioni esterni, che davano sullo strapiombo,
parevano quasi intatti, ma dappertutto le finestre erano occhiaie vuote le cui
lacrime vischiose eran rampicanti putridi. Nell’interno l’opera dell’arte,
distrutta, si confondeva con quella della natura e per vasti tratti dalla
cucina l’occhio correva al cielo aperto, attraverso lo squarcio dei piani
superiori e del tetto, diruti abbasso come angeli caduti. Tutto ciò che non era
verde di muschio era ancora nero dal fumo di tanti decenni prima.
Rovistando
tra le macerie trovavo a tratti brandelli di pergamena, precipitati dallo
scriptorium e dalla biblioteca e sopravvissuti come tesori sepolti nella terra;
e incominciai a raccoglierli, come se dovessi ricomporre i fogli di un libro.
Poi mi avvidi che da uno dei torrioni saliva ancora, pericolante e quasi
intatta, una scala a chiocciola allo scriptorium, e di lì, inerpicandosi per un
pendio di macerie, si poteva arrivare all’altezza della biblioteca: la quale
era però soltanto una sorta di galleria rasente le mura esterne, che dava in
ogni punto sul vuoto.
Lungo un
tratto di muro trovai un armadio, ancora miracolosamente ritto lungo la parete,
non so come sopravvissuto al fuoco, marcio d’acqua e di insetti. Dentro vi
stava ancora qualche foglio. Altri lacerti trovai frugando le rovine da basso.
Povera messe fu la mia, ma passai una intera giornata a raccoglierla, come se
da quelle disiecta membra della biblioteca dovesse pervenirmi un messaggio.
Alcuni brandelli di pergamena erano scoloriti, altri lasciavano intravvedere
l’ombra di una immagine, a tratti il fantasma di una o più parole. Talora
trovai fogli su cui erano leggibili intere frasi, più facilmente rilegature
ancora intatte, difese da quelle che erano state borchie di metallo… Larve di
libri, apparentemente ancora sane di fuori ma divorate all’interno: eppure
qualche volta si era salvato un mezzo foglio, traspariva un incipit, un titolo…
Raccolsi
ogni reliquia che potei trovare, e ne empii due sacche da viaggio, abbandonando
cose che mi erano utili pur di salvare quel misero tesoro.
Lungo il
viaggio di ritorno e poi a Melk passai molte e molte ore a tentar di decifrare
quelle vestigia. Spesso riconobbi da una parola o da una immagine residua di
quale opera si trattasse. Quando ritrovai nel tempo altre copie di quei libri,
li studiai con amore, come se il fato mi avesse lasciato quel legato, come se
l’averne individuato la copia distrutta fosse stato un segno chiaro del cielo
che diceva tolle et lege. Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si
disegnò come una biblioteca minore, segno di quella maggiore scomparsa, una
biblioteca fatta di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri.
Più rileggo
questo elenco più mi convinco che esso è effetto del caso e non contiene alcun
messaggio. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita
che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come un oracolo,
e ho quasi l’impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora
leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone, un carme a figura, un
immenso acrostico che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi
hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano
parlato per bocca mia. Ma quale delle due venture si sia data, più recito a me
stesso la storia che ne è sortita, meno riesco a capire se in essa vi sia una
trama che vada al di là della sequenza naturale degli eventi e dei tempi che li
connettono. Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte,
non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e
se più d’uno, e molti, o nessuno.
Ma questa
mia inabilità a vedere è forse effetto dell’ombra che la grande tenebra che si
avvicina sta gettando sul mondo incanutito.
Est ubi
gloria nunc Babylonia? Dove sono le nevi di un tempo? La terra danza la danza
di Macabré, mi sembra a tratti che il Danubio sia percorso da battelli carichi
di folli che vanno verso un luogo oscuro.
Non mi
rimane che tacere. O quam salubre, quam iucundum et suave est sedere in
solitudine et tacere et loqui cum Deo! Tra poco mi ricongiungerò col mio
principio, e non credo più che sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato
gli abati del mio ordine, o di gioia, come credevano i minoriti di allora,
forse neppure di pietà. Gott ist ein lautes Nichts,
ihn rührt kein Nun noch Hier… Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e
incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò
nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in
questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in
quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né
il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento
semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, nell’intimo dove
nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e
disabitata dove non c’è opera né immagine.
Fa freddo
nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per
chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda
tenemus.
Rosa que al
prado, encarnada,
te ostentas
presuntuosa
de grana y
carmín banada:
campa lozana
y gustosa;
pero no, que
siendo hermosa
también seràs
desdichada.
Juana Inés
de la Cruz
Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980
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