12 dicembre 2017

da Il nome della rosa – Umberto Eco

fotogramma da Il nome della Rosa di Jean-Jaques Arnaud

da Il nome della rosa – Umberto Eco 
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Tutto il pianoro era in preda al disordine. Ma si era appena all’inizio della tragedia. Perché, uscendo dalle finestre e dal tetto, la nube ormai trionfante delle scintille, incoraggiata dal vento, stava ricadendo ovunque, toccando le coperture della chiesa. Non v’è chi non sappia quante splendide cattedrali siano state vulnerabili al morso del fuoco: perché la casa di Dio appare bella e ben difesa come la Gerusalemme celeste a causa della pietra di cui fa pompa, ma le mura e le volte si reggono su di una fragile, per quanto mirabile, architettura di legno, e se la chiesa di pietra ricorda le foreste più venerabili per le sue colonne che si diramano alte nelle volte, ardite come querce, della quercia ha sovente il corpo — come ha parimenti di legno tutto il proprio arredo, gli altari, i cori, le tavole dipinte, le panche, gli scranni, i candelabri. Così accadde per la chiesa abbaziale dal portale bellissimo che tanto mi aveva affascinato il primo giorno. Essa prese fuoco in un tempo brevissimo. I monaci e la popolazione tutta del pianoro capirono allora che era in gioco la sopravvivenza stessa dell’abbazia, e tutti si misero a correre ancora più bravamente e disordinatamente per far fronte al pericolo.
Certo la chiesa era più accessibile e quindi più difendibile della biblioteca. La biblioteca era stata condannata dalla sua stessa impenetrabilità, dal mistero che la proteggeva, dall’avarizia dei suoi accessi. La chiesa, aperta maternamente a tutti nell’ora della preghiera, a tutti era aperta nell’ora del soccorso. Ma non v’era più acqua, o almeno pochissima se ne poteva reperire depositata in quantità sufficiente, le sorgenti ne fornivano con naturale parsimonia e con lentezza non commisurata all’urgenza della bisogna. Tutti avrebbero potuto spegnere l’incendio della chiesa, nessuno sapeva ormai come. Inoltre il fuoco si era comunicato dall’alto, dove era difficile issarsi per battere le fiamme o soffocarle con terra e stracci. E quando le fiamme arrivarono da basso, era ormai inutile buttarvi terra o sabbia, ché il soffitto ormai rovinava sui soccorritori travolgendone non pochi.
Così alle grida di rimpianto per le molte ricchezze arse si stavano ora unendo le grida di dolore per i volti ustionati, le membra schiacciate, i corpi scomparsi sotto un repentino precipitar di volte.
Il vento si era fatto di nuovo impetuoso e più impetuosamente alimentava il contagio. Subito dopo la chiesa presero fuoco gli stabbi e le stalle. Gli animali terrorizzati spezzarono i loro legami, travolsero le porte, si sparsero per il pianoro nitrendo, muggendo, belando, grugnendo orribilmente. Alcune scintille raggiunsero la criniera di molti cavalli e si vide la spianata percorsa da creature infernali, da destrieri fiammeggianti che travolgevano tutto sul loro cammino che non aveva né meta né requie. Vidi il vecchio Alinardo, che si aggirava smarrito senza aver compreso cosa accadesse, travolto dal magnifico Brunello, aureolato di fuoco, trasportato nella polvere e ivi abbandonato, povera cosa informe. Ma non ebbi né modo né tempo di soccorrerlo, né di piangere la sua fine, perché scene non dissimili avvenivano ormai per ogni dove.
I cavalli in fiamme avevano trasportato il fuoco là dove il vento non lo aveva ancora fatto: ora ardevano anche le officine e la casa dei novizi. Torme di persone correvano da un capo all’altro della spianata, senza meta o con mete illusorie. Vidi Nicola, il capo ferito, l’abito a brandelli, che ormai vinto, in ginocchio sul viale di accesso, malediceva la maledizione divina. Vidi Pacifico da Tivoli che, rinunciando a ogni idea di soccorso, stava cercando di afferrare al passaggio un mulo imbizzarrito, e come vi riuscì mi gridò di fare anch’io la stessa cosa, e di fuggire, per sfuggire a quella bieca parvenza di Armageddon.
Mi chiesi allora dove fosse Guglielmo e temetti che fosse stato travolto da un crollo. Lo trovai dopo lunga ricerca nei pressi del chiostro. Aveva in mano la sua sacca da viaggio: mentre il fuoco già si comunicava alla casa dei pellegrini era salito nella sua cella per salvare almeno le sue preziosissime cose. Aveva preso anche la mia sacca, in cui trovai qualcosa di cui rivestirmi. Ci soffermammo ansanti a guardare cosa avveniva d’intorno.
Ormai l’abbazia era condannata. Quasi tutti i suoi edifici erano, quale più quale meno, raggiunti dal fuoco. Quelli ancora intatti, non lo sarebbero stati tra poco, perché tutto ormai, dagli elementi naturali all’opera confusa dei soccorritori, collaborava a propagare l’incendio. Salve rimanevano le parti non edificate, l’orto, il giardino davanti al chiostro… Non si poteva fare più nulla per salvare le costruzioni ma bastava abbandonare l’idea di salvarle per poter osservare tutto senza pericolo, stando in zona aperta.
Guardammo la chiesa che ormai ardeva lentamente, perché è proprio di queste grandi costruzioni avvampare subito nelle parti lignee e poi agonizzare per ore, talora per giorni. Diversamente fiammeggiava ancora l’Edificio. Qui il materiale combustibile era molto più ricco, il fuoco ormai propagatosi del tutto per lo scriptorium aveva ora invaso il piano della cucina. Quanto al terzo piano, dove un tempo e per centinaia di anni v’era stato il labirinto, era ormai praticamente distrutto.
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