fotogramma da Il nome della Rosa di Jean-Jaques Arnaud
da Il nome della rosa
– Umberto Eco
(…)
Tutto
il pianoro era in preda al disordine. Ma si era appena all’inizio della
tragedia. Perché, uscendo dalle finestre e dal tetto, la nube ormai trionfante
delle scintille, incoraggiata dal vento, stava ricadendo ovunque, toccando le
coperture della chiesa. Non v’è chi non sappia quante splendide cattedrali
siano state vulnerabili al morso del fuoco: perché la casa di Dio appare bella
e ben difesa come la Gerusalemme celeste a causa della pietra di cui fa pompa,
ma le mura e le volte si reggono su di una fragile, per quanto mirabile,
architettura di legno, e se la chiesa di pietra ricorda le foreste più
venerabili per le sue colonne che si diramano alte nelle volte, ardite come
querce, della quercia ha sovente il corpo — come ha parimenti di legno
tutto il proprio arredo, gli altari, i cori, le tavole dipinte, le panche, gli
scranni, i candelabri. Così accadde per la chiesa abbaziale dal portale
bellissimo che tanto mi aveva affascinato il primo giorno. Essa prese fuoco in
un tempo brevissimo. I monaci e la popolazione tutta del pianoro capirono
allora che era in gioco la sopravvivenza stessa dell’abbazia, e tutti si misero
a correre ancora più bravamente e disordinatamente per far fronte al pericolo.
Certo
la chiesa era più accessibile e quindi più difendibile della biblioteca. La
biblioteca era stata condannata dalla sua stessa impenetrabilità, dal mistero
che la proteggeva, dall’avarizia dei suoi accessi. La chiesa, aperta
maternamente a tutti nell’ora della preghiera, a tutti era aperta nell’ora del
soccorso. Ma non v’era più acqua, o almeno pochissima se ne poteva reperire
depositata in quantità sufficiente, le sorgenti ne fornivano con naturale
parsimonia e con lentezza non commisurata all’urgenza della bisogna. Tutti
avrebbero potuto spegnere l’incendio della chiesa, nessuno sapeva ormai come.
Inoltre il fuoco si era comunicato dall’alto, dove era difficile issarsi per
battere le fiamme o soffocarle con terra e stracci. E quando le fiamme
arrivarono da basso, era ormai inutile buttarvi terra o sabbia, ché il soffitto
ormai rovinava sui soccorritori travolgendone non pochi.
Così alle grida di rimpianto per le
molte ricchezze arse si stavano ora unendo le grida di dolore per i volti
ustionati, le membra schiacciate, i corpi scomparsi sotto un repentino
precipitar di volte.
Il vento si era fatto di nuovo
impetuoso e più impetuosamente alimentava il contagio. Subito dopo la chiesa
presero fuoco gli stabbi e le stalle. Gli animali terrorizzati spezzarono i
loro legami, travolsero le porte, si sparsero per il pianoro nitrendo,
muggendo, belando, grugnendo orribilmente. Alcune scintille raggiunsero la
criniera di molti cavalli e si vide la spianata percorsa da creature infernali,
da destrieri fiammeggianti che travolgevano tutto sul loro cammino che non
aveva né meta né requie. Vidi il vecchio Alinardo, che si aggirava smarrito
senza aver compreso cosa accadesse, travolto dal magnifico Brunello, aureolato
di fuoco, trasportato nella polvere e ivi abbandonato, povera cosa informe. Ma
non ebbi né modo né tempo di soccorrerlo, né di piangere la sua fine, perché
scene non dissimili avvenivano ormai per ogni dove.
I cavalli in fiamme avevano
trasportato il fuoco là dove il vento non lo aveva ancora fatto: ora ardevano
anche le officine e la casa dei novizi. Torme di persone correvano da un capo
all’altro della spianata, senza meta o con mete illusorie. Vidi Nicola, il capo
ferito, l’abito a brandelli, che ormai vinto, in ginocchio sul viale di
accesso, malediceva la maledizione divina. Vidi Pacifico da Tivoli che,
rinunciando a ogni idea di soccorso, stava cercando di afferrare al passaggio
un mulo imbizzarrito, e come vi riuscì mi gridò di fare anch’io la stessa cosa,
e di fuggire, per sfuggire a quella bieca parvenza di Armageddon.
Mi chiesi allora dove fosse Guglielmo
e temetti che fosse stato travolto da un crollo. Lo trovai dopo lunga ricerca
nei pressi del chiostro. Aveva in mano la sua sacca da viaggio: mentre il fuoco
già si comunicava alla casa dei pellegrini era salito nella sua cella per
salvare almeno le sue preziosissime cose. Aveva preso anche la mia sacca, in
cui trovai qualcosa di cui rivestirmi. Ci soffermammo ansanti a guardare cosa
avveniva d’intorno.
Ormai l’abbazia era condannata. Quasi tutti i suoi
edifici erano, quale più quale meno, raggiunti dal fuoco. Quelli ancora
intatti, non lo sarebbero stati tra poco, perché tutto ormai, dagli elementi
naturali all’opera confusa dei soccorritori, collaborava a propagare
l’incendio. Salve rimanevano le parti non edificate, l’orto, il giardino
davanti al chiostro… Non si poteva fare più nulla per salvare le costruzioni ma
bastava abbandonare l’idea di salvarle per poter osservare tutto senza
pericolo, stando in zona aperta.
Guardammo la chiesa che ormai ardeva
lentamente, perché è proprio di queste grandi costruzioni avvampare subito
nelle parti lignee e poi agonizzare per ore, talora per giorni. Diversamente
fiammeggiava ancora l’Edificio. Qui il materiale combustibile era molto più
ricco, il fuoco ormai propagatosi del tutto per lo scriptorium aveva ora invaso
il piano della cucina. Quanto al terzo piano, dove un tempo e per centinaia di
anni v’era stato il labirinto, era ormai praticamente distrutto.
(…)
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