da La noia – Alberto Moravia
In quegli anni possedevo un grosso gatto soriano a cui ero molto affezionato ma col quale, spesso, mi avveniva di annoiarmi, soprattutto quando avevo esaurito quei pochi giochi e prove di intelligenza di cui la bestiola era capace. la noia, alla fine, mi ispirò un senso di crudeltà e questo, a sua volta, il gioco seguente. Mettevo in un piatto una piccola quantità di pesciolini crudi di cui sapevo il gatto era molto ghiotto e collocavo il piatto in un angolo della stanza. Poi andavo a prendere il gatto e dopo avergli fatto odorare il pesce, lo portavo nell’angolo opposto e lo lasciavo andare. Il gatto si lanciava subito in direzione del piatto, con un’espressione di gioia e di avidità per tutto il corpo, dalla punta della coda alla punta del naso; ma appena nella sua corsa egli aveva raggiunto il centro della stanza, io ero pronto ad afferrarlo fulmineamente per il collo e a riportarlo al punto di partenza. Ripetei questo gioco, se così posso chiamarlo, più e più volte, e ogni volta il gatto si accorgeva un po’ di più di essere vittima di una misteriosa disdetta e modificava di conseguenza il suo atteggiamento. Nei primi balzi era stato violento, avido, sicuro di sé; poi si fece più guardingo, quasi sperando che con lo schiacciare il corpo a terra e a muovere con cautela le zampe di sfuggire alla mia sorveglianza e, forse, addirittura, di rendersi invisibile; alla fine, il povero micio si limitò ad accennare un leggero movimento in avanti in direzione del piatto: un tentativo insieme furbo e triste di accertarsi senza troppa fatica della persistenza della mia crudele volontà. Quindi improvvisamente tutto cambiò: il gatto parlò. Voglio dire che, volgendo indietro il capo e guardandomi negli occhi, emise un lungo e molto espressivo miagolio, al tempo stesso patetico e ragionevole, che pareva dire: “Perché fai questo? Perché mi fai questo?” Il miagolio, così esplicito e così eloquente, ebbe il potere di farmi istantaneamente vergognare. Mi pare di ricordare che persino arrossii. Presi il micio in braccio, lo portai io stesso al piatto e ce lo lasciai a mangiare in pace i suoi pesciolini.
In quegli anni possedevo un grosso gatto soriano a cui ero molto affezionato ma col quale, spesso, mi avveniva di annoiarmi, soprattutto quando avevo esaurito quei pochi giochi e prove di intelligenza di cui la bestiola era capace. la noia, alla fine, mi ispirò un senso di crudeltà e questo, a sua volta, il gioco seguente. Mettevo in un piatto una piccola quantità di pesciolini crudi di cui sapevo il gatto era molto ghiotto e collocavo il piatto in un angolo della stanza. Poi andavo a prendere il gatto e dopo avergli fatto odorare il pesce, lo portavo nell’angolo opposto e lo lasciavo andare. Il gatto si lanciava subito in direzione del piatto, con un’espressione di gioia e di avidità per tutto il corpo, dalla punta della coda alla punta del naso; ma appena nella sua corsa egli aveva raggiunto il centro della stanza, io ero pronto ad afferrarlo fulmineamente per il collo e a riportarlo al punto di partenza. Ripetei questo gioco, se così posso chiamarlo, più e più volte, e ogni volta il gatto si accorgeva un po’ di più di essere vittima di una misteriosa disdetta e modificava di conseguenza il suo atteggiamento. Nei primi balzi era stato violento, avido, sicuro di sé; poi si fece più guardingo, quasi sperando che con lo schiacciare il corpo a terra e a muovere con cautela le zampe di sfuggire alla mia sorveglianza e, forse, addirittura, di rendersi invisibile; alla fine, il povero micio si limitò ad accennare un leggero movimento in avanti in direzione del piatto: un tentativo insieme furbo e triste di accertarsi senza troppa fatica della persistenza della mia crudele volontà. Quindi improvvisamente tutto cambiò: il gatto parlò. Voglio dire che, volgendo indietro il capo e guardandomi negli occhi, emise un lungo e molto espressivo miagolio, al tempo stesso patetico e ragionevole, che pareva dire: “Perché fai questo? Perché mi fai questo?” Il miagolio, così esplicito e così eloquente, ebbe il potere di farmi istantaneamente vergognare. Mi pare di ricordare che persino arrossii. Presi il micio in braccio, lo portai io stesso al piatto e ce lo lasciai a mangiare in pace i suoi pesciolini.
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