29 marzo 2015

Elegie Duinesi VII – Rainer Maria Rilke

Venere nella conchiglia - Giuseppe Bezzuoli

Elegie Duinesi VII – Rainer Maria Rilke

Finito è il tempo del corteggiamento, voce matura, che la natura
del tuo grido non sia più il; corteggiare, certo,
tu lanceresti un puro richiamo come l’uccello,
quando la stagione che avanza lo fa alzare, quasi dimentico
di essere un misero animale e non solamente un cuore
gettato nel sereno, nell’intimo dei cieli. Come lui,
lanceresti il tuo richiamo d’amore, senza dubbio – così che, ancora invisibile,
silenziosa, ti senta l’amica, nella quale una risposta
si sveglia lenta e nell’ascolto si appassiona –
la sua emozione accesa dall’ardimento della tua.
                               
Oh e la primavera lo accoglierebbe -, non v’è luogo
In cui non risuoni l’eco di una annunciazione. Prima un’esile nota
come una domanda che, con la quiete cresce,
aumenta nel silenzio l’affermazione pura del giorno.
Poi, per gradi, il richiamo sale fino al sognato
tempio del futuro -; poi il trillo, fontana
che con la pressione del getto anticipa la cascata
in un gioco pieno di promesse … e, imminente, l’estate.

Non solo i mattini tutti dell’estate -, non solo
come si trasformano nel giorno e splendono di cominciamento.
Non solo i giorni che sono teneri coi fiori, e in alto,
cogli alberi formati, vigorosi ed immensi.
Non solo il fervore di queste energie spiegate,
non solo i sentieri, non solo i prati, la sera,
non solo dopo un temporale tardivo, il respiro della schiarita,
non solo il sonno che si approssima e un presagio, la sera …
ma le notti! Ma le notti sublimi dell’estate,
ma le stelle, le stelle della terra.
Oh essere morti una volta e conoscerle infinitamente
Tutte le stelle: perché come, come, come dimenticarle.

Vedi, qui chiamerei l’innamorata. Ma solo lei
verrebbe … Verrebbero in tante da fragili tombe
e starebbero là … Perché, come potrei limitare il grido,
come, dopo averlo lanciato? I sommersi cercano
sempre ancora la terra -. Voi ragazzi, una cosa di qui
vissuta pienamente una volta, conterebbe per molte.
Non pensate che il destino sia più che lo spessore dell’infanzia;
quante volte sorpassaste l’amato, ansimando,
ansimando dopo una corsa estatica, verso nulla, all’aperto.

Essere qui è stupendo. Voi lo sapevate, ragazze, anche voi,
che sembravate mancare di tutto e sprofondaste -, voi, nei peggiori
vicoli della città, guastandovi o aperte
al degrado. Poiché ciascuna ebbe un’ora, forse neanche
un’ora intera, qualcosa appena misurabile
con la misura del tempo, tra due istanti -, là anche lei conobbe
un’esistenza. Tutto. Le venne piene di esistenza.
Solo, noi dimentichiamo troppo facilmente quello che il vicino
Che ride non ci invidia o non ci convalida. Noi la vogliamo innalzare
visibilmente, quando invece la visibilità più visibile
ci si manifesta solo quando la trasformiamo dentro.
Dentro, amore, sarà il mondo, e non altrove. La nostra
vita va avanti per trasformazioni. E a poco a poco
l’esterno scompare. Dove una volta c’era una casa durevole
emerge una struttura inventata, di sghembo, interamente
nell’ambito del pensabile, come se fosse ancora tutta nel cervello.
Lo spirito dei tempi accumula vaste riserve di energia, informe,
come l’impulso elettrico che trae da ogni cosa.
Il tempio non lo conosce più. Questa larghezza, quella del cuore,
la serbiamo ora più segretamente. Si: dove una cosa ancora sopravvive,
una cosa una volta pregata, una cosa servita, in ginocchio -,
passa così com’è nell’invisibile.
Molti non la percepiscono più, però, senza il vantaggio
di costruirla adesso nell’intimo, con statue e pilastri, più grande!

Ogni girata opaca del mondo ha i suoi diseredati,
cui il passato non appartiene più, e ciò che è prossimo non ancora.
Perché anche ciò che è prossimo è lontano per gli uomini. Noi
non ci lasceremo turbare da questo; rafforzi in noi il mantenimento
della forma ancora riconosciuta. – Questa visse una volta tra gli uomini,
visse nel mezzo del destino – devastante -, nel mezzo
del non-saper-dove visse, come fosse esistenza, e curvò stelle
verso di sé da cieli sicuri. Angelo,
anche a te la mostro, ecco! Che nel tuo sguardo
sia salvata una volta per tutte, ora finalmente dritta.
Colonne, pilastri, la sfinge,la grigia aspirazione verso l’alto,
di una città sconosciuta o che scompare, del duomo.

Non era stupendo? Oh angelo, strabilia, perché noi siamo,
noi, o tu che sei grande, racconta che noi siamo stati capaci di tanto, il fiato
non mi basta per lodare. Poiché in verità
non abbiamo trascurato gli spazi, questi rassicuranti, questi
nostri spazi. (Come devono essere terribilmente grandi,
che dopo millenni non straripano con la nostre sensazioni.)
ma una torre era grande, non è vero? Oh angelo, lo era -,
grande anche quando vicina a te? Chartres era grande -, e la musica
arrivava ancora più in alto e ci superava. E pure
anche solo un’innamorata -, sola alla finestra, di notte …
non ti arriva forse alle ginocchia -?
                                   Non credere che io non ti corteggi.
Angelo, e se anche ti corteggiassi! Tu non vieni. Perché la mia
chiamata è sempre piena di altrove; contro una corrente così forte
non puoi avanzare. Il mio grido
è come un braccio teso. E la sua mano alzata
e aperta ad afferrare, aperta resta,
come a difesa e a monito, davanti a te,
o inafferrabile, spalancata.

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