27 febbraio 2019

La rivoluzione. Cronaca poetica – Vladimir Majakovskij

Illustrazione per 'Per la voce' di Vladimir Majakovskij
La rivoluzione. Cronaca poetica – Vladimir Majakovskij

26 febbraio. Ubriachi, mescolati alla polizia,
i soldati sparavano al popolo.

Il 27

In uno sfolgorio d’armi e di lame si sparse
l’alba.
Rosseggiò lunga e purpurea.
Nella intirizzita caserma
severo
lucido
pregava il reggimento Volynskij.

Sul crudele
dio dei soldati giuravano
i reparti,
la multiforme testa sbattevano a terra.
Il sangue si accendeva, venerando le tempie.
I pugni stringevano il ferro con rabbia.

E al primo,
che ordinò –
“Sparate a chi ha fame!” –
soffocarono il grido con una pallottola.

Qualcuno urlò – “Attenti!”
ma non terminò.
Venne trafitto.
Una tempesta di reparti irruppe nella città.

Le nove.

Al nostro solito posto,
nella scuola militare di automobili
stiamo,
serrati da una cerchia di caserme.
L’alba si diffonde,
uccide col dubbio,
spaventando e rallegrando con il presentimento.

Alla finestra!

Vedo –
da lì,
dove il cielo è squarciato
dalla linea dentata dei palazzi,
ha preso il volo,
dispiegandosi, l’aquila dell’autocrate,
più nera di prima,
più feroce,
più aquilina.

Di colpo –
la gente,
i cavalli,
i lampioni,
le case
e la caserma
a flotte
di cento
si riversarono in strada.
Frantumato dai passi, risuonò il selciato.
Fracassò le orecchie l’incredibile avanzata.

Ed ecco chissà,
se dal canto della folla,
o dal rame impetuoso delle trombe dei soldati,
non da mano umana creata,
perforando la polvere con un fulgore,
si erge un’immagine.
S’infiamma.
Rosseggia.

Sempre più ampio è delle ali il dispiegarsi.
E più indispensabile del pane,
più bramata dell’acqua,
eccola:
“Cittadini, fucili in pugno!
Armi in pugno, cittadini!”.

Sulle ali delle bandiere,
lava delle cento teste,
dalla gola della città è volata nei cieli.

Con i denti delle baionette ha azzannato il bicipite
nero corpo dell’aquila imperiale.

Cittadini!
Oggi crolla il millennio “Prima”.
Oggi dei mondi viene visto il fondamento.
Oggi
fino all’ultimo bottone
rifaremo di nuovo la vita.

Cittadini!
Questo è il primo giorno del diluvio operaio.
Andiamo
a salvare il mondo confuso!
Che le folle conficchino nel cielo il loro scalpitio!
Che le flotte ruggiscano con la furia delle sirene!

Guai all’aquila bicipite!
Spumeggia il canto.
Ubriaca la folla.
Sciabordano le piazze.
Su una minuscola Ford
corriamo,
superando le pallottole che ci inseguono.
Con fracasso di clacson irrompiamo in città.

Nella nebbia.
Fuma il fiume delle strade.
Come una dozzina di barconi carichi nella tempesta
sulle barricate
scorre rimbombando la Marsigliese.

La mina infuocata del primo giorno
ronzando è piombata dietro la cupola della Duma.
Il brivido nuovo di un nuovo mattino
incontriamo nel delirio di nuovi dubbi.

Cosa accadrà?
Li scaraventeremo dalle finestre,
o aspetteremo
sulle brande
che di nuovo
la Russia
sia incurvata dal monarca
sotto il peso delle tombe?!

Stordisco l’anima con uno sparo secco.
Avanti,
trincerato nel pastrano.
Disseminando le case nel fracasso della mitragliatrice,
la città rimbomba.
La città brucia.

Ovunque lingue di fuoco
turbinano e scemano.
Turbinano di nuovo, spargendo scintille.

Sono le strade che,
sollevando la rossa bandiera,
chiamano la Russia con l’appello degli incendi.

Ancora!
Oh, ancora!
Oh, addestra con maggior vividezza, oratore dalla lingua rossa!
Soffoca del sole
e della luna i raggi
con le dita vendicatrici di un Marat dalle mille braccia!

A morte l’aquila bicipite!
Alle galere
sfonda le porte,
con gli artigli divorane la ruggine.
Imbottite di ciuffi di nere penne aquiline
stramazzano le guardie.

Cede la carcassa in fiamme della capitale.
Per le soffitte si allargata la caccia.
L’ora è vicina.
Sul ponte Troickij
avanzano frotte di soldati.

Scricchiolando fremono i piloni e le giunture.
Serriamo.
Ci battiamo.
Un secondo! –
e nella vernice
del tramonto
dalle torri della fortezza di Pietro e Paolo
s’innalza la bandiera infuocata della rivoluzione.

A morte l’aquila bicipite!
I grossi colle delle teste
mozzate di netto!
Affinché più non si ridesti.
Eccola!
Cade!
Alle spalle dell’ultimo si è aggrappata!
“Dio,
accogline quattromila nel suo grembo!”

Basta!
A pieni polmoni strombazzate la vostra gioia!
A noi
di Dio
che importa?
Da soli
con i nostri santi li seppelliremo.

Perché mai non cantate?
O forse
gli animi sono stati soffocati dal sudario della Siberia?

Abbiamo vinto!
Gloria a noi!
Glo-o-or-r-ria a noi!

Finché terremo in pugno le armi,
regnerà una volontà diversa.
Portiamo alla terra tavole nuove
dal nostro grigio Sinai.

Di noi,

Abitanti della Terra,
ogni Abitante della Terra è parente.
Tutti,
tra le macchine,
negli uffici,
nelle miniere sono fratelli.
Noi tutti
sulla terra
siamo soldati di un unico,
esercito che crea la vita.

le orbite dei pianeti,
l’esistenza degli stati
sono sotto le nostre volontà.
Nostra è la terra.
L’aria, è nostra.

Nostre le miniere di diamanti delle stelle.
E noi mai,
mai!
a nessuno,
a nessuno permetteremo!
di dilaniare la nostra terra a cannonate,
di straziare la nostra aria con le punte di lance affilate.

Il rancore di chi ha spaccato in due la terra?
Chi ha fatto innalzare il fumo sul bagliore dei massacri?
O forse
un unico sole
non basta per tutti?!
O il cielo sopra di noi è poco azzurro?

Gli ultimi cannoni rimbombano nelle dispute sanguinose,
le fabbriche sfaccettano l’ultima baionetta.
Costringeremo tutti a disperdere la polvere da sparo.
Ai bambini regaleremo le palle delle granate.

Non è la vita a urlare sotto i grigi pastrani,
non è il grido di coloro che non hanno niente;
questo è il tuono di un popolo enorme:

– Credo
nella grandezza del cuore umano! –

Sulla polvere sbattuta delle battaglie,
su tutti quelli che si azzuffano, disperando nell’amore,
oggi
l’inverosimile diventa realtà;
la grande eresia dei socialisti!

1917

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