4 agosto 2018

da Nel giardino del diavolo - Stewart Lee Allen

Vincent Van Gogh - Cesto di mele, dttaglio
da Nel giardino del diavolo - Stewart Lee Allen
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È noto che i cristiani ribattezzavano le divinità pagane per godere del loro influsso positivo, ma questo non sembra essere un tipico caso di assimilazione, poiché i romani capovolsero tutti i miti esistenti e le credenze attinenti alla mela. I celti ritenevano che la mela contenesse l’essenza del sapere divino, e che mangiandone si venisse trasportati in una sorta di paradiso. Il mito cristiano, invece, stabiliva chiaramente che il sapere ispirato dalla mela conduceva direttamente all’Inferno.
Altro che assimilazione; si trattava di un attacco vero e proprio, e così efficace che i cristiani adoperarono lo stesso stratagemma mille anni dopo nel Nuovo Mondo. Le popolazioni azteche del Messico ritenevano che l’uomo fosse vissuto un tempo in una specie di Paradiso terrestre dove ci si nutriva di fiori. Nell’originale mito azteco si credeva che il fiore dello xochitlicacan avesse la capacità di instillare il sapere divino, nel senso più positivo del termine, al pari della mela nella mitologia celtica. Quando i missionari spagnoli arrivarono in Messico nel Cinquecento, cominciarono a sopprimere tutte le antiche credenze azteche e a diffondere una nuova versione della cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre, in cui la mela veniva sostituita dal fiore. Secondo testimonianze indigene dell’epoca, fu la distruzione di quei fiori sacri, spesso usati per la preparazione di bevande rituali, a infliggere un colpo mortale alla loro cultura.
I cristiani del Medioevo, e in particolar modo un personaggio come Avito, prendevano molto seriamente i loro simboli, ma non erano consapevoli delle loro ripercussioni. Il poema di Avito, La caduta dell’uomo, fu tra le prime drammatizzazioni della Bibbia ad ampia diffusione, ed ebbe un tale successo tra la gente comune da guadagnare all’autore il soprannome di “Virgilio dei cristiani”. Poiché Avito viveva nel profondo nord celtico, sapeva bene quali associazioni la parola pomum avrebbe indotto. A dire il vero i cristiani erano talmente preoccupati per l’ascendente che la mela esercitava sull’immaginario popolare celtico, da creare una serie di bizzarre allegorie, che narravano come i poteri della mela filtrassero direttamente nel corpo di Cristo. In queste storie, create probabilmente intorno all’VIII secolo, si immaginava che Cristo venisse crocifisso a un melo. Allo stesso albero veniva inchiodata una “mela selvatica”, rappresentante la fede celtica, e il suo succo veniva fatto scorrere lentamente nel corpo del Messia. L’epilogo della storia vedeva il corpo di Cristo lasciare l’albero sotto forma di spirito. (Questo tipo di propaganda era abbastanza diffuso, e infatti alcuni studiosi islamici ripeterono la storia, circa cinquecento anni dopo, associando l’uva, propria del cattolicesimo, al frutto della conoscenza proibita.)
La diffamazione di cui fu oggetto la mela da parte del cristianesimo non ne fece diminuire il consumo, ma servì a mettere in guardia i nuovi convertiti, nell’Europa settentrionale, dai pericoli delle dottrine eretiche. Da allora, ogni contadino che sgranocchiava una McIntosh riceveva un viscerale memento su come il frutto venerato dai suoi antenati lo avesse condannato a un Purgatorio terreno. Il suo sapore contrastante (dolce e amaro) serviva da monito riguardo ai pericoli degli insegnamenti delle chiese non cattoliche, che di primo acchito potevano apparire piacevoli e allettanti. Perfino l’immagine popolare della mela venne sovvertita. I celti associavano il frutto alla gloriosa saggezza irradiata dal sole (il termine celtico abal, che significa mela, si ritiene derivi dal nome di Apollo, dio del sole). Quando i cristiani presero il sopravvento, i chierici relegarono la mela nella “giurisdizione di Venere” e della lussuria, trasformandola in un simbolo di fascino volgare, a volte associato alle malattie veneree.
La dice lunga sulla trasformazione della mela il ciclo mitologico di re Artù e di Merlino, per molti aspetti un Nuovo Testamento mancato del cristianesimo celtico. Nella versione originale i poteri soprannaturali di Merlino erano costantemente associati alla mela, abal. Egli profetizzava ai piedi di un albero carico di frutti purpurei, e il suo scritto più famoso, L’albero delle mele, è un’ode al frutto, per il suo ruolo simbolico, fondamentale nella resurrezione della fede druidica dopo la sconfitta da parte di Roma. “Il dolce melo con i suoi dolcissimi frutti,” così recita una delle prime versioni del poema “che cresce nei boschi selvaggi e solitari di Cleyddon! Tutti cercano te, ma invano, fino al giorno in cui verrà Cadwaladr a combattere i sassoni. Solo allora i britanni saranno di nuovo vittoriosi, guidati dal loro maestoso e leggiadro re [Artù]; a ognuno sarà reso il maltolto e le trombe della gioia annunceranno il trionfo della pace, il ritorno ai giorni sereni della felicità.” Il pometo cui fa riferimento l’ode di Merlino è Avalon, Isola delle mele, dove, secondo la leggenda, re Artù aspettava nel sonno l’ora della riscossa della sua nazione. Il poema sembra sia stato composto nel V secolo, più o meno all’epoca in cui il vero re Artù guidava la rivolta contro i
romani e il poeta Avito scriveva la sua versione della cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre. Ma quando, settecento anni dopo, uscì la versione ufficiale cristiana del ciclo di re Artù, il ruolo della mela venne completamente sovvertito. In questa versione, scritta nel XII secolo dal pio Goffredo di Monmouth, si narra di come Merlino, il sacerdote/mago druidico, “fosse preso da follia e avesse la bava alla bocca” per aver mangiato delle mele, descritte come “piene di quei piaceri velenosi propri delle donne”. Alcune versioni più tarde narrano di come egli venisse scaraventato all’Inferno dove il vero padre, Satana, lo attendeva. La chiesa di Roma, poi, bandì l’uso del sidro dalle cerimonie religiose.
Alla fine, comunque, la mela si prese la sua bella rivincita. I celti veneravano gli alberi in generale, non soltanto i meli, e i loro sacerdoti erano soliti raccogliersi in meditazione in boschetti di frassini o di querce. Ed è da questi luoghi sacri che noi prendiamo gli alberi che ogni anno, a Natale, fanno bella mostra di sé nelle nostre case, con il loro profumo silvestre e i loro rami addobbati di palline colorate; e cosa sono queste palline se non sacre abal, stilizzate, commercializzate, ma comunque rosse e verdi come ogni Pippin o McIntosh che si rispetti, il nostro omaggio a un’antica visione del Paradiso.

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