da “Il figlio maschio” – Giuseppina Torregrossa
In questa ricerca
ossessiva, aveva dilapidato i suoi risparmi con le prostitute, per concludere
alla fine che «le buttane montano tutte lo stesso meccanismo di bassa qualità».
Stanco e annoiato, aveva aperto una bottega da orologiaio, in attesa di incontrare
la donna con un ruotismo di valore come quello degli orologi Certina. Amava gli
ingranaggi sofisticati: ne aveva conoscenza, essendosi letto molti manuali, ed
esperienza, poiché per tanti anni era stato tornitore alla miniera Trabonella.
Viti e bulloni, tondini di ferro, lime, non avevano segreti per lui. Alla
miniera lo apprezzavano. Ma una mattina senza alcun preavviso si era
licenziato, stanco di dormire in un camerino dietro l’officina, ché la strada
per arrivare al paese era lunga.
«Il puzzo delle uova
marce mi è entrato nello stomaco, non sento più il profumo delle pesche mature
d’estate, dei gelsi di primavera, dei mandarini di Natale. E poi non vedo una
fimmina da sette anni» aveva detto ai compagni che cercavano di farlo
ragionare. Il suo era un lavoro buono, non doveva mai scendere dentro alla pancia della terra, ma
niente, lui era stato irremovibile, non per caso si chiamava Libertino,
maschile di Libertà, anche se il padre, scegliendo quel nome, pensava ai
seduttori pieni di fimmine, non agli anarchici testoni.
Libertino si
concentrò sul nastro di gros che rifiniva la gonna di sua moglie e soprattutto
sul gancio di metallo nero che entrava in un archetto dello stesso materiale.
Non riusciva a infilare le dita, la grossa pancia di Mimma sbuffava sopra e
sotto la cintura stretta. “La forza la devo esercitare direttamente sul
tessuto, altrimenti il gancio si spacca” pensò. Per aprirla dovette usare
entrambe le mani. Ogni sera sua moglie la spogliava lui, e la mattina dopo la
rivestiva. Era stata una decisione presa di comune accordo la prima notte che
avevano dormito insieme.
Dopo le nozze,
nell’intimità della loro camera, Mimma s’era spogliata di corsa e, con la
sottoveste addosso, s’era rifugiata in quel letto che aveva cullato
l’infelicità di sua madre Concettina. La ragazza si vergognava a mostrarsi al
marito, il quale, invece di occuparsi subito di lei, s’era chinato a raccogliere
l’abito e l’aveva adagiato con delicatezza sulla sedia. Sopra aveva sistemato
il velo, mentre le scarpe, allineate e appaiate, sporgevano dall’orlo.
Quindi si era seduto
sul bordo del letto ed era rimasto in silenzio. La ragazza aspettava, sapeva
che doveva succedere qualcosa: “Prima è, meglio è”.
Libertino, invece di
passare all’azione, s’era schiarito la voce e aveva fatto un discorso
sibillino: «Tesoro mio, tu sai che per amore tuo ho litigato con mio padre; ho
pagato due volte il sensale; ho fatto preciso identico tutto quello che voleva
tua madre. Adesso però vorrei chiederti una cosa».
Mimma aveva annuito,
docile.
«Sai qual è il
momento più emozionante per un orologiaio?»
«’Nzù» aveva
schioccato le labbra.
«Quando smonta
l’orologio e uno per uno tira fuori i pezzi che lo compongono.»
“Come parla bene mio
marito” aveva pensato Mimma compiaciuta, quasi dimenticando che era la loro
prima notte e avrebbero dovuto essere impegnati in ben altro.
«E sai che ci vuole
per essere un bravo orologiaio? Primo, lentezza» aveva continuato Libertino,
sollevando il pollice per fare un elenco, «perché la fretta ti fa combinare
danni. Secondo, precisione: ogni fase prelude alla successiva. Tanto per dire,
non puoi levare il bariletto prima delle lancette. Terzo, ordine, perché le
viti, se non le riponi in un contenitore, quando le vai a montare te ne
mancherà sempre una. Quarto» e aveva sollevato l’anulare, la fede aveva
luccicato, «conoscenza: non si può fare quello che non si sa. Quinto,
esperienza: certe cose non ci sono parole per spiegarle, devi vedere e poi
provare finché non azzecchi il movimento giusto del cacciavite. Da ultimo: mano
ferma, gli ingranaggi sono così delicati che basta un tremolizzo leggero e li
perdi per sempre.»
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