17 ottobre 2018

La solitudine, da "Lo spleen di Parigi" - Charles Baudelaire

dipinto di Kenny Harris
XXIII • La solitudine, da "Lo spleen di Parigi" - Charles Baudelaire

Un giornalista filantropo mi dice che la solitudine fa male, e a sostegno della sua tesi mi cita, come fanno i miscredenti, le parole dei Padri della Chiesa.
So bene che il Demonio frequenta volentieri i luoghi aridi, e che lo spirito assassino e lascivo si accende straordinariamente nella solitudine. Ma potrebbe darsi che questa solitudine sia pericolosa solo per un'anima oziosa e divagante che la popola con le sue passioni e le sue chimere. È chiaro che un chiacchierone il cui piacere supremo consista nel parlare dall'alto di una cattedra o di una tribuna, correrebbe forti rischi di diventare pazzo furioso nell'isola deserta di Robinson. Non pretendo dal mio giornalista le virtù e il coraggio di Crusoe, ma chiedo che almeno non si metta a levare accuse contro chi ama solitudine e mistero.
Apparteniamo a una razza così loquace, che fra noi si trovano individui che accetterebbero perfino la pena di morte con minore avversione, se soltanto si permettesse loro di tenere un fluente discorso dall'alto del patibolo, senza il pericolo di essere interrotti prima del termine dai tamburi di Santerre.
Non li compiango: perché immagino che le loro effusioni oratorie procurino loro voluttà pari a quelle che altri ricavano dal silenzio e dal raccoglimento: ma li disprezzo. Soprattutto, vorrei che il mio maledetto giornalista mi lasciasse libero di divertirmi a modo mio. «Davvero non provate mai - mi dice con quel suo tono nasale, così pretesco - il bisogno di condividere con qualcuno le vostre gioie?». Ma guardate un po' quanto è sottile e insinuante questo invidioso! Sa benissimo che disprezzo le sue gioie, e così, questo orrendo guastafeste, viene a intrufolarsi nelle mie!
«La grande sventura di non saper stare da soli...», dice da qualche parte La Bruyère per svergognare tutti coloro che si precipitano a dimenticare se stessi nella folla perché temono di non riuscire a sopportarsi.
«Quasi tutte le nostre sventure ci vengono dal non essere riusciti a restare nella nostra camera», dice un altro saggio, Pascal, mi pare, richiamando così nella cella del raccoglimento tutti quei dissennati che cercano la felicità nel movimento e in una prostituzione che chiamerei fraternalistica, se volessi parlare la bella lingua del mio tempo.

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