Agrigento - Valle dei templi
da "Il pranzo di Mosè" -
Simonetta Agnello Hornby
Ho trascorso tutte le estati, dall’età di tre anni, nella casa
di Mosè, la nostra campagna a pochi chilometri da Agrigento. Ma il mio ricordo
più bello di Mosè, non è a Mosè. È legato ai tempi in cui avevo non più di
cinque anni e abitavamo ad Agrigento. Talvolta, nel primo pomeriggio, Papà
apriva la porta della stanza dove io e mia sorella Chiara, piccina, trascorrevamo
le giornate con Giuliana, la nostra bambinaia, e annunciava dalla soglia: “Vado
a Mosè. Mi porto Simonetta”.
Erano gite meravigliose.
Papà stava poco in casa, e ancor meno con noi figlie. Era
presidente dell’Ente del Turismo di Agrigento e voleva migliorare e valorizzare
la Valle dei Templi. In più badava alle proprie campagne e andava dall’una all’altra
sulla sua bella Lancia coupé color amaranto, che guidava con maestria.
Sprofondata nel sedile accanto a lui, mi guardavo intorno soddisfatta e godevo
del panorama della Valle. Uomo di poche parole, quando era al volante mio padre
diventava quasi loquace: si lasciava andare a un commentario che in realtà era
un soliloquio. “Questa strada unisce Agrigento alla statale 115; secondo me segue
il tracciato di quella dei greci, perché raggiunge la costa passando attraverso
Porta Aurea.” Guidava cauto tra le alte facciate lisce e gialle che formavano
le pareti del passaggio a gomito, un tempo porta tra le mura greche, e spiegava
che gli archeologi l’avevano chiamata la Quarta porta della enorme cinta di
Akragas: era stata scavata nel costone di tufo; la grande muraglia aveva
protetto la città dagli invasori d’oltremare. “Ma non riuscì a fermare i
Cartaginesi: quelli misero Akragas a ferro e fuoco e ne incendiarono
i templi”.
Imboccato il rettilineo sotto il costone della zona sacra, Papà
rallentava; orgoglioso della nostra terra, ripeteva i nomi dei templi sul
crinale indicandoli con ampi gesti, le mani sollevate dal volante. “Le colonne
del tempio di Ercole sono le più antiche: sembrano davvero dei tronchi d’albero.”
Poi, tutto a un tratto rabbioso, esclamava: “Queste colonne furono sollevate da
un inglese, e a spese sue! Quando avremmo dovuto farlo noi siciliani!”. Eravamo
sotto il tempio della Concordia, giallo come la pietra su cui poggiava, con il
colonnato e il naos intatti. Pensieroso, borbottava tra sé e sé: “Questo s’è
salvato dallo scempio soltanto perché era stato trasformato in chiesa”.
Guardava la singola fila di colonne semidiroccate del tempio
di Giunone e, con un sospiro: “La gente di qui non capiva che i cilindri
scanalati e le pietre scolpite appartenevano ai templi greci; si portavano via
pezzi di colonna per farsi la casa. O forse fingevano di essere ignoranti…” un
altro sospiro, e “vandali erano anche i governanti: quelli sapevano! E fecero
buttare in acqua le pietre dei nostri templi per costruire il molo di Porto
Empedocle!”.
Papà ripeteva quelle parole ogni volta che passava da lì; le
sapevo a memoria e mi distraevo guardando i templi. Contavo i turisti che
vedevo aggirarsi a due a due, o in fila come formiche, tra le colonne e sul
crinale. Superato il tempio di Giunone, ci avvicinavamo al ponte sul fiume
Ypsas. Lì era soltanto campagna, con qualche mandorlo. Nulla sfuggiva all’occhio
scrutatore di mio padre: la potatura di un uliveto, un albero sofferente, un
orto ben accudito. Lui riconosceva a distanza le varietà di grano seminato e dalla
fioritura degli ulivi azzardava una stima approssimata del futuro raccolto.
Poi, rivolto a me: “Guarda, il fiume s’è scavato il suo corso nel costone”, e
rallentava sul ponte. Nel letto dell’Ypsas, ormai rigagnolo, non vedevo traccia
di acqua: vi cresceva, rigoglioso, un verde canneto. “Ai tempi dei greci era
navigabile fino all’interno dell’isola” commentava lui, con rammarico.
Cambiava marcia e accelerava. Con un boato la Lancia saliva
veloce sui due tornanti sulla collina: Papà dava uno sguardo a sinistra, le
mani sul volante. “Da quel pizzo inizia la Contrada Mosè” e puntava il dito all’estremità
della valle, dove una torretta si alzava dirimpetto al tempio di Giunone.
Ero tutta un palpito: mi sentivo parte della storia del mondo.
Sapevo che, dopo la salita, saremmo entrati nella piana coltivata a grano e a
un certo punto sarebbe apparsa la “nostra” guardiola di tufo giallo come i
templi, corredata di merli e terrazza, con finestre rettangolari sui due piani
superiori.
(…)
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