(…)
“Simonetta, eccola, la guardiola di Mosè!” Ma io l’avevo già
avvistata, e il cuore mi batteva forte. Sapevo che dietro la guardiola, il
terreno si piegava in colline coperte di ulivi e più giù, a metà collina,
nascosta agli occhi degli automobilisti, c’era la nostra casa. Non vedevo l’ora
di raggiungerla. Quello era Mosè.
Un posto “nostro”.
Agli inizi dell’Ottocento, Gerlando Giudice, un ricco medico
di Favara e trisnonno di Mamma, acquistò da un’Opera Pia un centinaio di ettari
di terreno nella Contrada Mosè, che un tempo faceva parte della riserva di
caccia di Federico di Svevia, re di Sicilia: un vasto bosco che copriva le
dolci colline tra Agrigento e Favara. Di questa era rimasta soltanto un’imponente
torre medioevale con cisterna funzionante, circondata da grandi ulivi. Nel 1843
il bisnonno di Mamma, Giuseppe Giudice, costruì il frantoio e, anni dopo, una
casa di villeggiatura per la famiglia, che inglobava la torre antica; ricostruì
anche la guardiola e nel 1870 concluse i lavori con l’aggiunta della chiesetta.
La casa era completa.
Attorno al fabbricato erano già stati piantati mandorli,
pistacchi, carrubi, un minuscolo giardino di agrumi, una vigna e un orto,
insomma, tutto quello che serviva per cucinare e mangiare bene. Il mio bisnonno
vi passò felicemente parte dell’estate, con figli e nipoti, fino alla morte nel
1882, a ottantasette anni. Da allora i Giudice – nostra madre, Elena, è stata l’ultima
proprietaria a portare il nome della famiglia – hanno sempre trascorso le vacanze
estive a Mosè. Con una penosa eccezione: durante la Seconda guerra mondiale l’esercito
dell’Asse requisì la tenuta. I soldati occuparono casa e fattoria e Mosè
divenne un accampamento militare. Nell’uliveto furono costruite postazioni in
cemento armato per le mitragliatrici e, lungo il crinale che guarda il mare d’Africa,
bunker e posti di vedetta. Nel luglio del 1943 Mosè fu il centro di una
battaglia sanguinosa, la prima resistenza all’avanzata degli Alleati in
Sicilia. Una bomba cadde nella sala da pranzo e distrusse la scala d’ingresso
principale, altre devastarono la cantina. Gli Alleati vittoriosi vi si insediarono
per un periodo. Quando ebbero conquistato Agrigento, abbandonarono Mosè
lasciando casa e fattoria aperte ai vandali.
La tenuta fu ereditata da Mamma nel 1946. Le piaceva
raccontare a Chiara e a me le ragioni di questa attribuzione. Nella divisione
delle proprietà del padre, i figli maschi, zio Giovanni e zio Peppino, ebbero
le terre di pianura, le migliori, mentre Mosè e Narbone, terre di collina,
furono destinate alle femmine, zia Teresa, la sorella maggiore, e Mamma.
Fecero a sorte: a Mamma era toccato Narbone, un feudo di
montagna. Nella primavera di
quell’anno erano andati tutti insieme in gita a Mosè. La
fattoria attigua alla casa, corredata
di due bagli, piccionaia, mandria e piccola torre di vedetta,
era di nuovo funzionante: i Vella, un nucleo di contadini originari di Favara e
mezzadri di Mosè, che avevano dovuto lasciare la fattoria e gli animali all’esercito
dell’Asse per rifugiarsi in paese, vi erano ritornati dopo l’armistizio.
La fattoria era scampata ai bombardamenti e, lavorando sodo,
loro erano riusciti a rimetterla in sesto e a riprendere il lavoro. La casa
padronale era in condizioni disastrose. Oltre ai danni causati dalla bomba, era
stata saccheggiata: scuri rotti, finestre senza vetri, tubature e pavimenti
divelti, mobili bruciati, mura affumicate, carta da parati strappata. Era
vuota, tranne la cucina, dove tutta la mobilia era rimasta intatta: forse perché
i mobili erano troppo pesanti per essere trasportati o forse, come mi piace
pensare, perché anche in guerra si rispetta il posto in cui si prepara il cibo.
(…)
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