6 agosto 2018

da "Il pranzo di Mosè" - Simonetta Agnello Hornby

da "Il pranzo di Mosè" - Simonetta Agnello Hornby

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Nell’aia spizzuliavano galline e pulcini; le corna a torciglione delle capre girgintane spuntavano alte dallo steccato della mandria. Mamma raccontava che Rosalia, la moglie di Luigi, il campiere, a cui lei e zia Teresa volevano molto bene, aveva offerto loro ’u caffè
du parrinu e del pane ancora tiepido, cotto nel forno a legna. Quando erano fuggiti dalla fattoria con i bambini, Rosalia s’era portata la livatina, la pagnottella di pasta lievitata che si conserva ad ogni impastata di pane, per farla inacidire e trasformarsi nel lievito per le successive panificazioni. La livatina di Mosè proveniva da una pasta madre mantenuta in vita dalle femmine della sua famiglia sin dal 1870. Scappando, Rosalia se l’era messa addosso, sotto le vesti, a diretto contatto con il proprio corpo per proteggerla e mantenerla calda. Ma la livatina era morta. Era stata rimpiazzata da un’altra che veniva da una pasta madre regalo di un pastore di Castrofilippo: “Il pane riesce bene ed è buono, ma non è la stessa cosa” aveva concluso Rosalia.
Nel frattempo gli uomini erano andati in giro a cavallo nell’uliveto assieme a Luigi. “Era una bellissima giornata di primavera,” ricordava Mamma “il sole caldo era temperato da un venticello rinfrescante; le chiome degli ulivi frusciavano allegre, e la campagna era nel suo splendore, tutta fiorita. Quella passeggiata fece innamorare Papà di Mosè: lo voleva. Me ne parlò quella sera stessa e io chiesi a mia sorella se potevamo scambiarci le campagne.”
Zia Teresa volle accontentarla e fu lieta di prendersi in cambio Narbone.
I lavori di ristrutturazione furono lunghi e costosi. C’erano impalcature dappertutto, impastatrici di cemento, operai e muratori. Un magazzino era stato trasformato in falegnameria per Michele, l’anziano falegname di Agrigento che aveva lavorato per i Giudice quasi tutta la vita: lui fece tutte le persiane della casa da solo, a mano. La cucina fu rifatta e i vecchi mobili abbandonati, freschi di una mano di pittura blu e celeste, accolsero tra loro una moderna cucina economica alimentata dal legno della pota degli ulivi.
Il 19 agosto del 1949 celebrammo a Mosè il primo compleanno di Chiara; eravamo accampati al primo piano, insieme alle famiglie di zio Giovanni e zia Teresa. L’illuminazione era data da candele e lampade ad acetilene. Poco alla volta la casa di Mosè rinasceva e si abbelliva, grazie a Mamma e a Melina, la sarta, che cucivano tende, fodere, copriletto, tovaglie, tovaglioli, e alla generosità di parenti e amici che ci mandavano quello che a loro non serviva più, come servizi di piatti e di bicchieri incompleti, o mobili di cui volevano sbarazzarsi: divani e poltrone ingombranti, armadi vecchi, l’intera sala da pranzo liberty e la camera da letto ottocentesca dei nonni Giudice. Malandati e poi tirati a nuovo, questi mobili furono e rimangono molto amati da noi, e continuano ad accogliere nelle stanze ombrose di casa nostra la famiglia allargata, amici e ospiti di passaggio; ci ricordano la solidarietà all’interno delle famiglie e l’affetto di amici generosi. I miei figli, nati a Oxford, sono stati portati a Mosè da neonati, e ci ritornano ogni anno, più di una volta, con i loro bambini e con amici, come facevamo Chiara ed io.
Alla morte di Papà, nel 1985, in fattoria vivevano soltanto Rosalia e i figli maggiori, Lillo e Vincenzo, con le rispettive mogli: ambedue non avevano figli. Lillo era emigrato in Francia per anni; poi era tornato e curava il gregge. Vincenzo, il primo dei Vella a guidare il trattore, era il fattore di Mosè: i tempi erano cambiati e la figura del campiere era diventata desueta.
La posizione di campiere si tramandava tra i Vella di padre in figlio, ed era passata a Luigi, padre di Vincenzo e l’ultimo a ricoprire questo ruolo a Mosè. Il campiere era un uomo di fiducia che andava a cavallo terre terre per controllare i possedimenti del padrone; aveva ancora una funzione importante nella Sicilia del dopoguerra – era suo compito controllare ogni giorno, per conto della famiglia, che non ci fossero scanusciuti, animali altrui, o cani randagi nelle nostre terre, che gli abbeveratoi fossero puliti e in ordine. Inoltre, il campiere, sempre all’erta su quello che succedeva nel territorio, bloccava i tentativi di furti, di incendi e di abigeati.
Vincenzo oggi ha quasi ottant’anni; vedovo, continua a vivere a Mosè e vede come suo erede Luigi, figlio di Totu, il fratello più giovane, che, da pensionato, si è trasferito a Mosè per badare alla ménagerie degli animali del figlio – galline, oche, cavalli e un piccolo gregge di pecore e capre – e per aiutarlo nella preparazione dei formaggi e della ricotta.
Chiara, di professione architetto, volle occuparsi della tenuta, che convertì all’agricoltura biologica; ricavò dalle case vuote dei contadini e dalle stalle disusate sei appartamenti che aprono su un baglio trasformato in giardino: fanno parte dell’agriturismo Fattoria Mosè che accoglie ospiti da tutto il mondo. Ora, noi e i nostri amici condividiamo con i turisti il pranzo alla nostra tavola.
Ascoltando la conversazione, sembra che nulla sia cambiato a Mosè.
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