5 agosto 2018

da “Il seno” – Philip Roth

da “Il seno” – Philip Roth
Traduzione di Silvia Stefani

Cominciò stranamente. Ma poteva forse esserci un altro inizio? Si dice che tutte le cose sotto il sole cominciano «stranamente» e finiscono «stranamente» e sono strane; una rosa perfetta è «strana», proprio come una rosa imperfetta, e come la rosa di normalissimo colore e gradevolezza che cresce nel giardino del vicino. Conosco quella prospettiva da cui ogni cosa appare terrificante e misteriosa. Rifletti sull’eternità, considera, se ne sei capace, l’oblio, e tutto diventa un portento. Eppure in assoluta umiltà io dico che certe cose sono più straordinarie di altre e che io sono una di esse.
Cominciò stranamente, con un lieve, sporadico formicolio all’inguine. Durante quella prima settimana mi rinchiudevo diverse volte al giorno nel gabinetto per uomini adiacente al mio ufficio nella facoltà di Scienze umanistiche e mi tiravo giù i pantaloni, ma, per quanto mi esaminassi scrupolosamente, non vedevo niente fuori dal comune. Con riluttanza, decisi di ignorare la cosa. Ero stato tutta la vita un ipocondriaco superappassionato e attento a ogni variazione della temperatura corporea e regolarità fisiologica, ma, proprio per questo, l’uomo ragionevole che si nascondeva in me da parecchio tempo non riusciva più a prendere seriamente tutti i miei sintomi rivelatori.
Nonostante gli atroci presagi di estinzione, paralisi o sofferenza intollerabile che accompagnavano ogni nuova ondata di dolore o di febbre, avevo raggiunto i trentotto anni in forze e appetito. Ero un uomo di un metro e ottanta, postura eretta e fisico asciutto, quasi tutti i capelli e tutti i denti, nessuna grave malattia in anamnesi. Di conseguenza, se ero istintivamente portato a identificare quel formicolio all’inguine con qualche disturbo nervoso del tipo fuoco di sant’Antonio - o peggio -, contemporaneamente capivo che, come sempre, si trattava di una bolla d’aria.
Ma sbagliavo. C’era qualcosa, davvero. A una settimana di distanza mi accorsi che la pelle sotto i peli del pube si era fatta rosata; una macchiolina così lieve che finii con l’impormi di non star più lì a guardare; non era altro che un po’ d’irritazione, di certo niente di cui preoccuparsi. Ma dopo un’altra settimana - arrivando così per la cronaca a un periodo d’incubazione di ventun giorni - mi guardai giù una sera mentre entravo nella doccia e scoprii che, chissà come, in quella giornata frenetica di lezioni e conferenze e viaggi in metropolitana e pasti fuori, la carne alla radice del pene era diventata di un morbido color rossastro. Tinta, decisi all’istante, doveva essere la tinta delle mie mutande. (Che poi le mutande di quel giorno, adesso in un mucchietto ai miei piedi, fossero di un azzurro pallido non contava niente in quell’ondata di terrorizzata incredulità). Sembravo macchiato, come se una fragolina, o una ciliegia, si fosse schiacciata contro il mio pube, e il succo fosse corso giù per il membro, colorandone la radice irregolarmente.
Nella doccia mi insaponai ben bene e mi sciacquai il pene e i peli tre volte, poi mi rivestii dalle cosce all’ombelico di uno strato denso di bolle di sapone che continuai a massaggiarmi sulla pelle finché non ebbi contato fino a sessanta; quando mi risciacquai con acqua calda sgradevolmente calda questa volta - la macchia era sempre lì. Nessun esantema, crosta, ammaccatura o infiammazione, ma un grosso cambiamento nel pigmento che mi fece pensare subito al cancro.
Era giusto mezzanotte, l’ora delle trasformazioni in ogni storia dell’orrore che si rispetti - e un’ora difficile per trovare un medico a New York.
Ciononostante, telefonai immediatamente a casa del mio, il dottor Gordon, il quale, malgrado i miei tentativi di non apparire allarmato, sentì la paura nella mia voce e si offrì di vestirsi e attraversare tutta quanta la città per venire a visitarmi. Forse se Claire fosse stata con me quella notte, invece di essere a casa sua a preparare la relazione del Comitato accademico, avrei avuto il coraggio della mia paura e detto al medico di venire di gran corsa. Naturalmente era improbabile che, in base a quei sintomi, e a quell’ora, il dottor Gordon decidesse di farmi ricoverare all’ospedale, e da quel che ne sappiamo adesso - o continuiamo a non sapere - non risulta che una volta in ospedale si sarebbe potuto prevenire o arrestare quel che si andava preparando. Forse si poteva alleviare con un po’ di morfina l’agonia delle quattro ore successive, ma niente lascia supporre che qualche trattamento medico sarebbe riuscito a fermare il corso del disastro, tranne l’eutanasia.
Con Claire al mio fianco, avrei potuto crollare completamente, ma solo com’ero provai un’improvvisa vergogna per il modo in cui avevo perso il controllo; non erano passati più di cinque minuti da quando avevo individuato la macchia, e me ne stavo là, umido e nudo sul mio divano di cuoio, a tentare vanamente di superare la nota tremula nella mia voce quando abbassavo gli occhi sul pene e descrivevo al dottore quello che vedevo. Tieni duro, pensai - e così tenevo duro, cosa che mi riesce tutte le volte che me lo impongo. Mi dissi che, se era quel che temevo, poteva benissimo aspettare fino al mattino; e se non lo era, poteva aspettare lo stesso. Me la sarei cavata. Ero stanco morto dopo una giornataccia di lavoro, e mi ero appena preso… un bel colpo.
Sarei andato da lui allo studio intorno a… - mi sentii un mostro di coraggio mezzogiorno. Le nove, fece lui. Si, risposi, e poi col tono più normale che potei: - Buona notte.
(…)

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