Traduzione di Silvia Stefani
Cominciò stranamente.
Ma poteva forse esserci un altro inizio? Si dice che tutte le cose sotto il
sole cominciano «stranamente» e finiscono «stranamente» e sono strane; una rosa
perfetta è «strana», proprio come una rosa imperfetta, e come la rosa di
normalissimo colore e gradevolezza che cresce nel giardino del vicino. Conosco
quella prospettiva da cui ogni cosa appare terrificante e misteriosa. Rifletti
sull’eternità, considera, se ne sei capace, l’oblio, e tutto diventa un
portento. Eppure in assoluta umiltà io dico che certe cose sono più
straordinarie di altre e che io sono una di esse.
Cominciò stranamente,
con un lieve, sporadico formicolio all’inguine. Durante quella prima settimana
mi rinchiudevo diverse volte al giorno nel gabinetto per uomini adiacente al
mio ufficio nella facoltà di Scienze umanistiche e mi tiravo giù i pantaloni,
ma, per quanto mi esaminassi scrupolosamente, non vedevo niente fuori dal
comune. Con riluttanza, decisi di ignorare la cosa. Ero stato tutta la vita un
ipocondriaco superappassionato e attento a ogni variazione della temperatura
corporea e regolarità fisiologica, ma, proprio per questo, l’uomo ragionevole
che si nascondeva in me da parecchio tempo non riusciva più a prendere
seriamente tutti i miei sintomi rivelatori.
Nonostante gli atroci
presagi di estinzione, paralisi o sofferenza intollerabile che accompagnavano
ogni nuova ondata di dolore o di febbre, avevo raggiunto i trentotto anni in
forze e appetito. Ero un uomo di un metro e ottanta, postura eretta e fisico
asciutto, quasi tutti i capelli e tutti i denti, nessuna grave malattia in
anamnesi. Di conseguenza, se ero istintivamente portato a identificare quel
formicolio all’inguine con qualche disturbo nervoso del tipo fuoco di
sant’Antonio - o peggio -, contemporaneamente capivo che, come sempre, si
trattava di una bolla d’aria.
Ma sbagliavo. C’era
qualcosa, davvero. A una settimana di distanza mi accorsi che la pelle sotto i
peli del pube si era fatta rosata; una macchiolina così lieve che finii con
l’impormi di non star più lì a guardare; non era altro che un po’
d’irritazione, di certo niente di cui preoccuparsi. Ma dopo un’altra settimana
- arrivando così per la cronaca a un periodo d’incubazione di ventun giorni -
mi guardai giù una sera mentre entravo nella doccia e scoprii che, chissà come,
in quella giornata frenetica di lezioni e conferenze e viaggi in metropolitana
e pasti fuori, la carne alla radice del pene era diventata di un morbido color
rossastro. Tinta, decisi all’istante, doveva essere la tinta delle mie mutande.
(Che poi le mutande di quel giorno, adesso in un mucchietto ai miei piedi,
fossero di un azzurro pallido non contava niente in quell’ondata di terrorizzata
incredulità). Sembravo macchiato, come se una fragolina, o una ciliegia, si
fosse schiacciata contro il mio pube, e il succo fosse corso giù per il membro,
colorandone la radice irregolarmente.
Nella doccia mi insaponai
ben bene e mi sciacquai il pene e i peli tre volte, poi mi rivestii dalle cosce
all’ombelico di uno strato denso di bolle di sapone che continuai a
massaggiarmi sulla pelle finché non ebbi contato fino a sessanta; quando mi
risciacquai con acqua calda sgradevolmente calda questa volta - la macchia era
sempre lì. Nessun esantema, crosta, ammaccatura o infiammazione, ma un grosso
cambiamento nel pigmento che mi fece pensare subito al cancro.
Era giusto
mezzanotte, l’ora delle trasformazioni in ogni storia dell’orrore che si
rispetti - e un’ora difficile per trovare un medico a New York.
Ciononostante,
telefonai immediatamente a casa del mio, il dottor Gordon, il quale, malgrado i
miei tentativi di non apparire allarmato, sentì la paura nella mia voce e si
offrì di vestirsi e attraversare tutta quanta la città per venire a visitarmi.
Forse se Claire fosse stata con me quella notte, invece di essere a casa sua a
preparare la relazione del Comitato accademico, avrei avuto il coraggio della
mia paura e detto al medico di venire di gran corsa. Naturalmente era
improbabile che, in base a quei sintomi, e a quell’ora, il dottor Gordon
decidesse di farmi ricoverare all’ospedale, e da quel che ne sappiamo adesso -
o continuiamo a non sapere - non risulta che una volta in ospedale si sarebbe
potuto prevenire o arrestare quel che si andava preparando. Forse si poteva
alleviare con un po’ di morfina l’agonia delle quattro ore successive, ma
niente lascia supporre che qualche trattamento medico sarebbe riuscito a
fermare il corso del disastro, tranne l’eutanasia.
Con Claire al mio
fianco, avrei potuto crollare completamente, ma solo com’ero provai
un’improvvisa vergogna per il modo in cui avevo perso il controllo; non erano
passati più di cinque minuti da quando avevo individuato la macchia, e me ne
stavo là, umido e nudo sul mio divano di cuoio, a tentare vanamente di superare
la nota tremula nella mia voce quando abbassavo gli occhi sul pene e descrivevo
al dottore quello che vedevo. Tieni duro, pensai - e così tenevo duro, cosa che
mi riesce tutte le volte che me lo impongo. Mi dissi che, se era quel che
temevo, poteva benissimo aspettare fino al mattino; e se non lo era, poteva
aspettare lo stesso. Me la sarei cavata. Ero stanco morto dopo una giornataccia
di lavoro, e mi ero appena preso… un bel colpo.
Sarei andato da lui
allo studio intorno a… - mi sentii un mostro di coraggio mezzogiorno. Le nove,
fece lui. Si, risposi, e poi col tono più normale che potei: - Buona notte.
(…)
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