dipinto di Fernando Botero
da “La signora del miele”
- Fanny Buitrago
(…)
L’ultima
visita di condoglianze fu quella di Clavel Quintanilla. arrivò una domenica
verso il crepuscolo, mentre Galaor si agghindava per andare a una messa per
l’anima di sua madre, fatta dire dalle signorine Arantza. Dona Ramonita era
morta da sei mesi.
Teodora
stava insaponando le camicie bianche di Galaor, gli indumenti intimi di
flanella, i fazzoletti finemente marcati con le sue iniziali. Quando aprì la
porta aveva le mani bagnate e un grembiule di plastica sopra il vestito della
festa. Clavel la prese per una domestica. Senza disturbarsi a salutare e con
fare altezzoso chiese:
“E’
in casa Galaor? Sono la sua nuova vicina, Clavel Quintanilla. Sono venuta a fargli
le condoglianze”.
Teodore
era così stanca che mentre rispondeva soffocò due sbadigli. Circostanza di cui
approfittò la sconosciuta per entrare in casa muovendosi come una palma al
vento. Era vestita a lutto, senza trucco; sembrava che la morte di dona
Ramonita l’addolorasse intimamente. I suoi occhi, dilatati, ardevano di un
intenso fulgore, che Teodora scambiò per pianto trattenuto. Non fece caso alla
seta nera incollata alle curve prominenti, né alla scollatura che metteva in
risalto i seni rotondi e non la insospettì nemmeno l’aroma di verbena che
impregnava i lunghi capelli ricciuti. Aveva una montagna di panni in
lavanderia, doveva impastare dieci budini alle prugne. Tuttavia credette alle
parole di Galaor quando questi, col viso sconvolto dal dolore, le disse:
“Meglio
che ci vada tu alla messa al posto mio. Non mi sento molto bene. E non voglio
piangere in pubblico la perdita di mia madre”.
Teodora
non fece in tempo a varcare la soglia che la porta si stava già chiudendo con
spranghe e catenacci. Una passione elettrizzante zampillava dalle fessure
mentre Galaor Ucròs e Clavel Quintanilla si guardavano e si palpeggiavano
ansiosi, snervati, sul punto di mandare faville. Perché quello fu sesso a prima
vista. Senza colpo di fulmine, senza preamboli, senza ammiccamenti o smancerie.
In
chiesa Teodora continuava a starsene come in un limbo. Fra gesti sdegnosi,
lievi storcimenti di labbra, fini sopracciglia inarcate. Offese, le eleganti
signorine Arantza non le rivolsero neppure un saluto. E lei, con il suo abito
bianco e nero, il messale e il rosario, le scarpe a mezzo tacco, si inginocchiò
devota, umile, nell’ultimo banco. Riuscì a sussurrare “Nel nome del Padre e del
Figlio…” al ritmo del celebrante, e aspirò l’aroma dei gigli, la mirra del
suffumigio, l’effluvio di colonia e naftalina che emanava da sottovesti e
mantiglie.
“Signorina
Vencejos!”
(…)
Traduzione di
Antonella Donazzan
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