Un’idea, un’idea non sovviene, alla fatica de’
cantieri, mentre i sibilanti congegni degli atti trasformano in cose le cose e
il lavoro è pieno di sudore e di polvere. Poi ori lontanissimi e uno zaffìro,
nel cielo: come cigli, a tremare sopra misericorde sguardo. Quello che, se
poseremo, ancora vigilerà. I battiti della vita sembra che uno sgomento li
travolga come in una corsa precìpite. Ci ha detersi la carità della sera: e
dove alcuno aspetta moviamo: perché nostra ventura abbia corso, e nessuno la impedirà. Perché poi avremo a riposare.
Lucide magnolie specchiavano il lume delle prime
gemme tremanti nel cielo: ma le ombre, frammezzo tutte le piante, si facevano
nere.
La moltitudine delle piante pareva raccogliersi
nell’orazione, siccome del giorno conchiuso doveva darsi grazie ad Alcuno, a
Chi ha disegnato gli eventi, il nero dei monti dentro la infinità buia della
notte. Gli alti alberi, immersi più nella notte, pensavano per primi. E gli
arbusti, poi, e gli alberi giovani, che ancora sono compagni delle erbe e ne aspirano
da presso il malïoso profumo: e le erbe folte e i cespi con turgidi fiori e
tutti gli steli frammisti dell’arborea semenza riprendevano ancora quel
pensiero che i grandi avevano inizialmente proposto.
Non sembrava possibile rompere la meravigliosa
unità di quel conoscere, la purità silente e stupita della comune preghiera.
Quelle nature adempivano interamente e sempre alla lor legge, vivevano attrici,
in sé medesime, di un’unica legge: che è la loro unica vita.
Il vento, a folate, accorse dai crinali e dalle
gole nere dei monti, ove un fragore è nel fondo. Sciogliendo la sua corsa
verso l’aperto, vi respiravano a quando a quando, con un lento respiro, gli abeti:
o i faggi dalle radici aggrovigliate. Così dei lontani si sa tutto, ed anche i
dolori.
Alcune foglie sembravano maioliche d’un giardino
dell’oriente sognato e le dolci, vane stelle vi si specchiavano a rimirarsi. Nell’olezzo
e nel carneo pallore di talune corolle era un desiderio un po’ malinconico e
strano, un turbamento, inavvertito dapprima, che si faceva poi ansia, brama
cupa: dirompeva in un male violento, selvaggio. E allora questo male attutiva
ogni memoria; e ne straniava dalla idea. Ridecomponeva il preordinato volere. Cancellava le antiche norme, gli insegnamenti raccolti lungo un
sentiero già smarrito, quasi puri fiori da bimbi. E così moviamo verso il
nostro futuro: né abbiamo senso o contezza, quale sarà.
Accade che troppo stanchi, o perduti in un’ansia,
riguardiamo ai segni lontani della notte. Dei secoli sono germinate le torri.
Angeli diàfani, formazioni opalescenti della luce lunare, esalavano dai vertici
dei pioppi, congiunte le mani, per recare a Dio le orazioni della sera. Ma adesso
staccavano soli, senza messaggio, derelitto il loro approdo terreno come vela d’Alvise
che sciolga vanamente al ritorno, a risuperare l’inutilità.
Una tromba comandò ai soldati che avessero tutti a
rientrare, spogliarsi, coricarsi: interrompendo ogni parola o gioco o passo o
tardo pensiero: o un susurro, che forse la notte avrebbe conceduto di prorogare.
Quella tromba, che lacerava il buio, disse che dovunque perviene e vale il
comando: il comando de’ superiori. E da tutti era intesa, ma non ascoltata da
tutti. Alcuni indugiavano nella notte, le di cui ombre non consentono di riconoscere
gli èslegi.
(…)
Nessun commento:
Posta un commento