dipinto di Eric Bowman
Quarta Elegia - Rainer Maria RilkeAlberi di vita, quando invernate?
Non c'è accordo tra noi. Non c'è intesa
come tra gli uccelli migratori. Superati e in ritardo,
ci buttiamo di colpo nei venti
per lasciarci cadere in uno stagno indifferente.
Conosciamo il fiorire e al tempo stesso l'appassire.
E da qualche parte vengano ancora leoni e,
finché perdura lo splendore, ignorano ogni impotenza
Ma noi, quando siamo intenti a una cosa,
già ci distrae l’ansia per l’altra. Inimicizia
è quel che ci è prossimo. Forse che gl’innamorati
non s’imbattono sempre in nuove barriere, l’uno nell’altro,
loro che si erano promessi spazio, avventura e rifugio.
Per la rappresentazione di un attimo,
già si prepara uno sfondo del contrario, penoso,
che noi si possa vedere; perché si è molto chiari
con noi. Ignoriamo il contorno del sentire,
solo ciò che gli dà forma dall’esterno.
Chi non si sedette turbato davanti al sipario del proprio cuore?
Che si aprì: la scena era un addio.
Facile da capire. Il noto giardino,
e oscillò piano: solo allora venne il ballerino.
Non quello. Basta! E anche se si muove così lievemente
è travestito e diventa un borghese
ed entra in casa passando per la cucina.
Non voglio queste maschere mezze vuote,
meglio il burattino. È pieno. Sopporterò
il manichino e il filo e la faccia
fatta di apparenze. Ecco. Sono proprio qui davanti.
E anche se si spengono le luci, anche se
mi si dice: Non c’è più nulla –, anche se dal palcoscenico
m’investe il vuoto con una corrente d’aria grigia,
anche se nessuno dei miei antenati silenziosi
siede più qui con me, nessuna donna, neppure
il ragazzo strabico dagli occhi castani:
tuttavia io rimango. C’è sempre da guardare.
Non ho ragione? Tu che attorno a me sentisti
tanto amaro il sapore della vita, padre, provando la mia,
il primo torbido infuso di ciò che io, crescendo,
dovevo fare, provando sempre di nuovo e
preoccupato dal sapore che un futuro così ignoto
ti lasciava in bocca, interrogavi il mio confuso sguardo levato –,
tu, padre mio, che da che sei morto, spesso
nel mio sperare, dentro di me, provi paura,
e rinunci a quella serenità per il mio pezzetto di destino,
quella ricchezza di serenità che come tutti i morti possiedi,
non ho forse ragione? E voi, non ho ragione,
voi che mi amaste per quell’amore
che cominciavo ad avere per voi, da cui sempre mi ritraevo,
perché per me lo spazio nelle vostre fattezze,
come lo amavo, si cambiava nello spazio cosmico,
dove voi non c’eravate più…: se mi va,
di restare in attesa davanti al teatro dei burattini, no,
di fissare con tale intensità che, alla fine
per controbilanciare il mio sguardo, deve apparire là, come
attore,
un angelo che sollevi di colpo le spoglie vuote.
Angelo e burattino: allora è finalmente teatro.
Allora si ricongiunge quello che noi continuamente
separiamo, per il semplice fatto di esserci. Solo allora
nasce dalle nostre stagioni il ciclo
della vita intera. Sopra e al di là di noi
recita allora l’angelo. Vedi, i morenti
dovrebbero sospettare come è pieno di pretese
tutto quello che facciamo qui. Niente
è se stesso. Oh tempo dell’infanzia,
dove dietro le figure c’era più
che il solo passato e il futuro non ci stava davanti.
Naturalmente crescevamo e talvolta avevamo fretta
di diventare grandi, in parte per far piacere a loro
cui non restava altro che l’essere divenuti grandi.
Eppure in quel nostro andare soli
godevamo di ciò che è duraturo, e stavamo là,
in quello spazio intermedio tra mondo e giocattolo,
in un luogo che dal principio
era stato creato per un puro evento.
Chi mostra un bambino così com’è? Chi lo colloca
tra gli astri e gli dà in mano la misura
della giusta distanza? Chi fa la morte dei bambini
col grigio pane che si è indurito –, o la lascia
dentro la bocca rotonda come fosse il torsolo
di una bella mela?… È facile
capire gli omicidi. Ma questo: contenere
la morte, l’intera morte, prima ancora della vita,
dolcemente, così, senza malanimo,
è indescrivibile.
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