12 agosto 2018

da “Avventure della ragazza cattiva” – Mario Vergas Llosa

dipinto di Osamu Obi 
da “Avventure della ragazza cattiva” – Mario Vergas Llosa
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“Di te, mi piace tutto, - le dicevo. - Ma, più di tutto, quella deliziosa maniera di parlare che hai”. Era curiosa e originale, per la sua intonazione e per la sua musica, così diverse da quelle peruviane, e anche per certe espressioni, paroline e frasette che a noi del quartiere
ci lasciavano stralunati, cercando di indovinare cosa volessero dire e se in esse vi fosse nascosta qualche burla. Lily passava la vita dicendo cose a doppio senso, facendo indovinelli o raccontando barzellette tanto spinte che facevano arrossire come peperoni le ragazze del quartiere. “Quelle ragazzine cilene, quelle chilenitas, sono terribili”, sentenziava zia Alberta, togliendosi e infilandosi gli occhiali con quella sua aria da professoressa, preoccupata che le due forestiere potessero disintegrare la morale miraflorina.
Ancora non c’erano palazzi a Miraflores all’inizio degli anni Cinquanta, quartiere di casette a un solo piano o al massimo due, di giardini con gli immancabili gerani, le poinciane, gli allori, le bouganvillee, il prato e le terrazze su cui si arrampicavano il caprifoglio o l’edera, con sedie a dondolo dove gli abitanti delle case aspettavano la sera spettegolando e annusando il profumo del gelsomino. In alcuni parchi c’erano ceibe spinose dai fiori rossi o rosa, e i marciapiedi dritti, puliti, avevano alberelli di suche, di jacaranda, di gelsi e la nota di colore la davano, quanto i fiori dei giardini, i carrettini gialli dei gelatai di D’Onofrio, che indossavano come un’uniforme lo spolverino bianco e il berretto nero, e percorrevano le strade giorno e notte annunciando la loro presenza con una tromba il cui lento ululare mi faceva l’effetto di un corno barbaro, di una reminiscenza preistorica. Si sentivano ancora cantare gli uccelli in quel Miraflores dove le famiglie tagliavano i pini quando le ragazze arrivavano all’età da marito, perché, se non lo avessero fatto, le poverine sarebbero rimaste zitelle come mia zia Alberta.
Lily non mi concedeva mai il suo sì, ma a parte questa formalità era pur vero che per tutto il resto sembravamo fidanzatini. Ci tenevamo per mano alle matinée del Ritardo Palma, del Leuro, del Montecarlo e del Colina, e, sebbene non si potesse dire che nel buio delle platee facessimo cose come altre coppie di più vecchia data - fare cose era una formula in cui rientravano i baci insignificanti ma anche i risucchi linguistici e pure i toccamenti sporchi che bisognava confessare al prete i primi venerdì come peccati mortali -, Lily lasciava che la baciassi, sulle guance, sul bordo delle orecchie, all’angolo della bocca e,
a volte, per un secondo, univa le sue labbra alle mie e le scostava con una smorfia melodrammatica: “No, no, questo proprio no, flaquito”. “Sei ridotto male, sei proprio perso, flaco, sei viola, flaco, ti stai disfacendo per questa cotta, flaco”, si burlavano i miei amici del quartiere. Non mi chiamavano mai con il mio nome – Ricardo Somocurcio -, ma sempre con il soprannome. Non esageravano affatto: ero innamorato perso di Lily.
(…)
Traduzione di Glauco Felici
Giulio Einaudi Editore, 2006

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