dipinto di Fernando Botero
da “La signora del
miele” - Fanny Buitrago
(…)
Fuori,
nell’atrio, con i volti celati dalle mantiglia e fieramente vestite a lutto,
passeggiavano con nonchalance due false nipoti di Leocadia Payares, una mezzana
famosa per le sue natiche monumentali (sollazzo di notabili, militari e
ragionieri), semibenestante, che gestiva una casa di pessima reputazione nei
dintorni della ferrovia.
Ci
fu grande partecipazione al funerale e al novendiale. Come si faceva a notare
solo le donne? Teodora si alzava all’alba per adempiere ai suoi doveri. Dona
Ramonita le aveva insegnato la sua arte. Pasticcerie, gelaterie e ristoranti
compravano i suoi budini alla frutta, i suoi biscotti al sesamo, gli involtini
al formaggio, una passa e miele, i sospiri con panna montata. Come se fosse
viva la sua madrina, che lei aiutava da quando ebbe uso della ragione e che
negli ultimi tempi non lavorava. La mattina, preparava tre pentole di riso con
il pollo o i gamberi, fondeva il cioccolato che di solito si serve nelle veglie
funebri, riordinava la casa, dava da mangiare a Galaor e gli preparava i
vestiti. Sul far della sera, con il suo dolore e il vestito e le calze nere,
accoglieva gli ospiti che si recavano lì in pellegrinaggio. A mangiare e bere e
raccontare barzellette e dire meraviglie della defunta.
Al
centro della sala, seduto vicino al pianoforte verticale, Galaor Ucròs riceveva
le condoglianze, vestito di lino grezzo e con scarpe coordinate. Livido,
garbato, con le occhiaie. Con un aria distante che letteralmente soggiogava le
ragazze da marito… Ed erano tante! Alle signorine indicate da Ramona Céspedes
de Ucros se ne aggiungevano altre di paesi vicini e città lontane. Tutte,
davvero tutte con un immenso desiderio di consolare l’orfano e di consolarsi a
loro volta.
E
così, sera dopo sera, per tutta la durata del novendiale.
Dieci,
dodici, quindici ragazze in boccio – comprese le Barraza, le Del Rosal, le
Baquero e le Arantza – che si lanciavano feroci occhiate al di sopra del riso e
del pollo o i gamberi, del cioccolato spumoso, dei bicchierini di punch e rum
bianco.
“Quanta
bellezza…! e io qui tutto solo!” mormorava ipocritamente Galaor a tutte, e a
ognuna nello stesso modo. “Come sono triste!”
…
E loro tutte intente a soddisfare i suoi capricci, a riempire il suo bicchiere,
a sfiorare le sue mani delicate.
I
sospiri, le corsette, quel dimenare di anche e seni accendevano a tal punto
l’ambiente che la veglia non andava oltre la mezzanotte. Le coppie si
scambiavano sguardi maliziosi, interrompevano la rassegna delle scemenze, i
racconti a bassa voce, l’enumerazione delle virtù della defunta Ranìmonita e
uscivano senza salutare. Nell’aria profumata di tamarindi e cacao si libravano
sospiri e fusa.
“Non
ne posso più. Svelto!”
All’alba
– da quel che dicevano il curato, il sacrestano, i commessi viaggiatori e le
vecchie insonni – il paese era scosso da insoliti sussulti. Gemiti, respiri
affannosi, scricchiolii, aiuto, aiuto!, baci, risate, morsi. La temperatura
superava i trenta gradi e sui tetti i gatti trattenevano il fiato benché
fossero in calore. Di patio in patio i cani sbavavano senza emettere un solo
latrato.
Povere
ragazzine! Camminavano come sonnambule, avevano incubi, sognavano la verga del
diavolo in persona, si strofinavano il ghiaccio tra le cosce o, se il
bottoncino centrale pretendeva l’impossibile, scoppiavano a piangere.
Teodora
Vancejos piombava esausta verso l’una e si svegliava di solito al canto del
gallo. Né durante il novendiale, né dopo, fu mai tormentata da ardori o
trasporti amorosi. E neppure notò qualcosa di strano intorno a lei. Naturalmente,
per la strada e in paese, il proliferare di donne raggianti, appagate
richiamava la sua attenzione…, ma che importava? Aveva tanto sonno che soltanto
la vista di Clavel Quintanilla riuscì a farle aprire gli occhi.
(…)
Traduzione di
Antonella Donazzan
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