7 dicembre 2017

Dieci anni prima della fine – Urzula Koziol


Dieci anni prima della fine – Urzula Koziol

Il secolo ventesimo è finito
prima di finire
benché non si sappia esattamente quando.

Poteva andarsene il giorno in cui
è morto Salvator Dalì
come se il destino dell’epoca si pesasse
sul piatto di baffi così assurdi
come i suoi
studiati con cura fino all’ultimo peluzzo

per opporre resistenza all’orrore celato sotto il segno
dei decenni di mezzo
e inoltre così arrotolati come un messaggio segreto
che tuttavia non si sa a chi destinato.

Il secolo ventesimo è passato prima che finisse la corsa.
Doveva prenderlo anzitempo con sé nella tomba
la solerte collezionista di Venezia
Peggy Guggenheim
dopo aver prima attaccato molto dello spirito del tempo
nella sua galleria privata
sotto l’albero di Calder
dove ancora fa le fusa il gatto di Paul Klee
presso la muta chitarra di Braque e di Picasso.

Senza Bette Davis senza la divina
Greta Garbo
non c’è che dire ormai è la fine la fine
presto dovremo dire addio all’ultimo mito
le gambe di Marlene Dietrich
– Dio mantienile sane –
perché anche se tu sapessi crearne un milione di così belle
questo secolo non accetterà mai un altro paio di gambe
oltre a quelle
– che quando eri ancora di ottimo umore –
un giorno ti degnasti di plasmare.

Svaniscono miti simboli stelle
e i beniamini a misura del secolo.
Tra l’enorme massa di grigie
disconosciute esistenze
ancor più clamorosa doveva essere
la morte del quieto Beckett
tanto più che nessuno simile a lui in questo secolo
apparirà più.

A cavallo tra il 1989 e il 1990
si è rotta finalmente la corda
da mezzo secolo troppo tesa del sistema
che si spacciava per paradiso
(benché dovesse esserlo principalmente
per le generazioni future).

Questo sistema – fatto curioso –
creato per fini decisamente più alti
dei fini più semplici
che di solito impegnano l’uomo comune
non era idoneo a vivere
alla fine
non tanto negli scontri sulle strade
e non combattendo è caduto
ma piuttosto si è avariato
come una bistecca al sangue messa di continuo da parte
per un’altra occasione
e sempre per dopo

o forse è inacidito proprio come una minestra
che era pur buona all’inizio
ma non è stata messa in frigo.
Dunque si è dovuto rinunciare al gusto
(anzi al disgusto).

Se le rivoluzioni cominciassero
e finissero con una salva trionfale

purtroppo

esse amano durare ancora
e durando scrosciare sciabordare e gorgogliare
finché non finiscono in un balbettio

amano anche girare su se stesse.

In modo non fotogenico come la famiglia degli zar
per cominciare fu uccisa
e sul punto di partire
vilmente e brigantescamente i coniugi rumeni
furono eliminati
– con inutile fretta –
mutando i boia in vittime.

L’ingresso nella sfera del cosmo in pratica
non ha cambiato quasi niente nella dimensione terrestre
tutto in linea di massima rimane – come prima –
da risolvere in futuro

la modifica delle prospettive
dei reciproci riferimenti
ancora non sembra avere importanza
e tuttora nei posti di frontiera
il popolo si azzuffa come prima

dagli angoli sono sbucati gli spettri d’un tempo
con un duro manganello
e di nuovo guardano chi possono colpire
benché si pensasse che ciò
non si sarebbe più ripetuto.

Da noi a nostra volta è venuto a galla
che il Polacco medio
benché finora fosse capace di essere soprattutto poeta
e rappresentante di ardenti idee
per le quali era solito morire con mirabile voglia
adesso si getta con vigore sul miele
dei piccoli commerci di frontiera con discutibile gusto
perde la faccia e via dicendo
di felicità si rianima l’islam nelle vicinanze
per cui alla Polonia si attaglia di nuovo
il ruolo di baluardo della cristianità – –
 è il nostro vecchio
ormai ben logoro cavallo
degli scacchi (benché in mancanza d’altro ancora utile al soccorso)
forse su di esso con mutata faccia il Polacco varcherà
finalmente la soglia dell’Europa
che – volendo o no – gli aprirà la porta.

La Lituania troppo presto ha tolto le maschere – così adatte! –
ai politici sia delle grandi potenze
sia delle piccole
che risultano forti nel vuoto gesticolare
o nella parola solenne
ma non nel trarre le conclusioni
dalle dichiarazioni rese

prima che riuscissimo a saziarci
di speranza
dopo le ampollose chiacchiere ci è rimasta
una spina così infilata nel tallone  che
ad ogni passo si fa sentire
e non c’è modo di toglierla
prima che col tempo si formi il pus
che attenuerà il dolore.

Non è escluso che insieme con la morte di Sacharov
insieme col suo respiro nel sonno
– l’ultimo –
sia evaporata la coscienza
istituita in questo angolino della terra
e debba oggi sostituirla l’effetto della sbronza e il singhiozzo.

Il vento della storia
nelle raffiche oltremodo veloci ha svelato
le clamorose benché segrete sepolture per lo più di massa

il capo osannato ieri nei canti
a dismisura si è rivelato il sanguinario di sempre
ma soltanto adesso lo è diventato ufficialmente

i diciassette milioni uccisi per suo volere ieri
senza dubbio di nuovo
non tratterranno il zelante poeta di turno
dal rimare domani l’ennesima cantata
alla sua gloria o contro di essa.

Non c’è nessuno con cui Dio possa consolarsi.

Tutto fa schifo/ non scriverò più.*

primavera 1990

*Cesare Pavese

Traduzione di Paolo Statuti
Poesia n. 311 Gennaio 2016. Crocetti Editore

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