Anton Abraham van Anrooy - No.182 Ebury Street, London
da “Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke
(…)
Per tutta la notte lo sentii andare su e giù per la sua camera, perché anch’io non riuscivo a dormire. Ma a un tratto, verso il mattino, mi svegliai da una specie di dormiveglia e, con un brivido che mi penetrò fino al cuore, vidi che qualcosa di bianco si era posato sul mio letto. Nel mio sgomento trovai finalmente la forza di ficcare la testa sotto le coperte e là cominciai a piangere di disperazione e di angoscia. Poi provai un’impressione di chiaro e di fresco sugli occhi e li tenni stretti sulle lacrime per non vedere. Ma la voce che ora mi parlava da molto vicino veniva sul mio viso tiepida e dolce, e la riconobbi: era la voce della signorina Matilde. Mi calmai subito, ma benché fossi già tranquillo dentro di me, mi lasciai consolare: sentivo che questa bontà era superflua ma me ne compiacevo e mi pareva in qualche modo di averla meritata. «Zia, – dissi finalmente cercando di ricomporre nel suo viso sbiadito i tratti di mia madre, – zia, chi era quella signora?» «Ah, – rispose la signorina Brahe con un sospiro che mi parve comico, – un’infelice, bambino mio, un’infelice».
Quella stessa mattina vidi in una camera i domestici che si affaccendavano con le valige. Pensai che saremmo partiti e trovai naturale la nostra partenza. Forse era stata anche l’intenzione di mio padre. Non seppi mai che cosa lo avesse indotto a fermarsi a Urnekloster dopo quella sera. Ma non partimmo. Ci fermammo ancora otto o nove settimane in quella casa, sopportammo il peso dei suoi strani eventi e vedemmo ancora tre volte Cristina Brahe.
Allora non sapevo nulla della sua storia. Non sapevo che da molto tempo, molto tempo, ella era morta nel suo secondo parto dando alla luce un bambino che poi doveva crescere a una sorte dolorosa e crudele – non sapevo che era una morta. Ma mio padre lo sapeva. Si era voluto costringere, lui che era un passionale ma credeva nella chiarezza e nella logica, ad accettare quest’avventura con fermezza e senza domande. Vidi, senza capirne il perché, le lotte che combatteva con se stesso e, sempre senza rendermene conto, partecipai alla sua vittoria.
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Per tutta la notte lo sentii andare su e giù per la sua camera, perché anch’io non riuscivo a dormire. Ma a un tratto, verso il mattino, mi svegliai da una specie di dormiveglia e, con un brivido che mi penetrò fino al cuore, vidi che qualcosa di bianco si era posato sul mio letto. Nel mio sgomento trovai finalmente la forza di ficcare la testa sotto le coperte e là cominciai a piangere di disperazione e di angoscia. Poi provai un’impressione di chiaro e di fresco sugli occhi e li tenni stretti sulle lacrime per non vedere. Ma la voce che ora mi parlava da molto vicino veniva sul mio viso tiepida e dolce, e la riconobbi: era la voce della signorina Matilde. Mi calmai subito, ma benché fossi già tranquillo dentro di me, mi lasciai consolare: sentivo che questa bontà era superflua ma me ne compiacevo e mi pareva in qualche modo di averla meritata. «Zia, – dissi finalmente cercando di ricomporre nel suo viso sbiadito i tratti di mia madre, – zia, chi era quella signora?» «Ah, – rispose la signorina Brahe con un sospiro che mi parve comico, – un’infelice, bambino mio, un’infelice».
Quella stessa mattina vidi in una camera i domestici che si affaccendavano con le valige. Pensai che saremmo partiti e trovai naturale la nostra partenza. Forse era stata anche l’intenzione di mio padre. Non seppi mai che cosa lo avesse indotto a fermarsi a Urnekloster dopo quella sera. Ma non partimmo. Ci fermammo ancora otto o nove settimane in quella casa, sopportammo il peso dei suoi strani eventi e vedemmo ancora tre volte Cristina Brahe.
Allora non sapevo nulla della sua storia. Non sapevo che da molto tempo, molto tempo, ella era morta nel suo secondo parto dando alla luce un bambino che poi doveva crescere a una sorte dolorosa e crudele – non sapevo che era una morta. Ma mio padre lo sapeva. Si era voluto costringere, lui che era un passionale ma credeva nella chiarezza e nella logica, ad accettare quest’avventura con fermezza e senza domande. Vidi, senza capirne il perché, le lotte che combatteva con se stesso e, sempre senza rendermene conto, partecipai alla sua vittoria.
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