24 maggio 2018

da “Il figlio maschio” - Giuseppina Torregrossa

da “Il figlio maschio” - Giuseppina Torregrossa

Concetta spazzolò energicamente i suoi capelli fitti, li tirò con forza come se volesse strapparli, constatò che tra le dita non le era rimasto neanche un pelo e sorrise compiaciuta. La sua chioma, con il passare degli anni, non si era diradata né imbiancata, aveva di che vantarsi.
La donna raccolse le ciocche rigogliose in una coda di cavallo, l’attorcigliò fino a farne una corda, poi la acconciò sulla sommità del capo in un grosso tuppo, fermandolo con un’unica forcina d’osso. Si specchiò e controllò che i vestiti fossero in ordine. Poteva essere soddisfatta: a quarant’anni passati  il suo corpo piccolo era ancora sodo e compatto, le braccia tornite, le gambe muscolose. I seni appesantiti scendevano con grazia, non pendevano abbandonati, avevano anzi una certa consistenza e davano l’impressione di essere pieni. Se non fosse stato per i due solchi profondi ai lati della bocca e per i capezzoli scuriti e allungati dai numerosi allattamenti, si sarebbe potuto dire che era la stessa di sempre.
Suo marito, nonostante quelle sproporzionate areole color cioccolato, l’amava ancora con l’ardore della giovinezza, ardore che lei assecondava e ricambiava. mai che si fosse tirata indietro una volta che erano sposati, al contrario aveva sempre assolto con entusiasmo ai suoi doveri coniugali, traendone un grande beneficio per l’integrità del suo corpo e della sua anima. Dodici figli erano nati, in conseguenza di quella passione che li aveva resi schiavi l’uno dell’altra. Era solo grazie alla menopausa che aveva smesso di figliare come una giumenta. Il suo stato di salute era comunque ottimo e lei aderiva alla vita con la pienezza del suo essere.
L’orologio liberty della torre municipale suonò l’ora. Concetta contò i rintocchi: “Uno, due, tre… dodici”, era tardi! Si rimboccò le maniche della camicetta, annodò dietro la schiena le cocche del grembiule e corse in sala da pranzo.
I suoi figli, tutti bravi per carità, ché il destino con lei era stato davvero generoso, erano ormai grandi e molti se n’erano andati via. Le sarebbe piaciuto averli ancora intorno, a cominciare da Teresa, la primogenita, che ora abitava nel vicino paese di Delia. Sospirò: quella ragazza avrebbe meritato di sposare un uomo più importante di un semplice putiaro. Un gran lavoratore suo genero, e non faceva mancare nulla alla famiglia, ma a Concetta erano sempre piaciuti di più i maestri dei commercianti. E quando aveva cercato di dissuaderla. Teresa le si era rivolta contro con una rispostaccia: “Vuoi arricchiri? Fai arti vili”.
Vita, la seconda, a dispetto del nome che portava, aveva un gran paure dell’esistenza e rifuggiva da ogni tentazione terrena, perciò s’era fatta monaca. “Acqua ha nelle vene, no sangue, quella scema!” I pavidi Concetta li disprezzava, anche quando le venivano parenti.
‘Nzula abitava a Caltanissetta con quell’animella che chiamava marito. In compenso i suoi due figli maschi erano bravi e intraprendenti. Quelli sarebbero riusciti di sicuro. “E’ proprio vero che c’è una Provvidenza per tutti” pensò Concetta.
Filippina ricamava per le Figlie di Maria e da qualche mese non tornava più a casa: aveva deciso di prendere i voti. “Mah, non preso niente da me, ‘ste ragazze. Pallide, solitarie e con il deserto nel ventre.”
Marianna e Gaetana figliavano contente con i loro mariti, due pezzi di marcantonio che davano soddisfazione solo a guardarli.
I maschi, invece, tutto il contrario. Dei due Salvatore, il primo, mischino, era stato sfortunato ed era morto subito; l’altro invece aveva fatto carriera come professore. “Ah, lui!” Il viso della donna s’illuminò. “Buon sangue non mente.” Poi sospirò: peccato che stava a Napoli, lontano da lei. “Ma è accussì bravo lu figgi miu” aggiunse per consolarsi.
Vincenzo e Nicola, come indomiti guerrieri, se n’erano andati in America a cercare fortuna e ogni mese le mandavano i soldi per aiutarla.
A conti fatti in casa gliene erano rimasti tre. Filippo, il cui avvenire le dava qualche preoccupazione. Intelligente e bello, secondo lei, meritava un futuro migliore di quello che il padre gli stava preparando. Portarlo in campagna a lavorare sarebbe stato un sacrilegio. Le sue belle mani bianche non erano fatte per la zappa, ma per la penna. Concettina, dal carattere spigoloso e dalle forme abbondanti, completamente succube dei fratelli. E Angelino, mischinazzo, così malaticcio, quasi un infermo, che se ne stava sempre a letto anche quando doveva mangiare.
Guardò le dita: compreso Turi, suo marito, doveva apparecchiare per quattro.
(…)

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