24 maggio 2018

da “Memoria delle mie puttane tristi” - Gabriel Garcia Marquez

da “Memoria delle mie puttane tristi” - Gabriel Garcia Marquez

L'anno dei miei novant'anni decisi di regalarmi una notte d'amore folle con un'adolescente vergine. Mi ricordai di Rosa Cabarcas, la proprietaria di una casa clandestina che era solita avvertire i suoi buoni clienti quando aveva una novità disponibile. Non avevo mai ceduto a questa né ad altre delle sue molte tentazioni oscene, ma lei non credeva nella purezza dei miei principi. Anche la morale è una questione di tempo, diceva, con un sorriso maligno, te ne accorgerai. Era un po' più giovane di me, e non avevo sue notizie da così tanti anni che poteva benissimo essere morta. Ma al primo squillo riconobbi la voce al telefono, e le sparai senza preamboli:
"Oggi sì."
Lei sospirò: Ah, mio triste professore, scompari per vent'anni e torni solo per chiedere l'impossibile. Subito dopo riacquistò il dominio della sua arte e mi offrì una mezza dozzina di scelte allettanti, ma, questo sì, tutte usate. Insistetti che no, che doveva essere pulzella e per quella stessa notte. Lei domandò allarmata: Cos'è che vuoi provare a te stesso? Niente, le risposi, ferito nel punto che più mi doleva, so benissimo quello che posso e quello che non posso fare. Lei disse impassibile che i grandi professori sanno tutto, ma non tutto: gli unici Vergini che ormai rimangono nel mondo siete voi nati in agosto. Perché non mi hai dato l'incarico con maggiore anticipo? L'ispirazione non dà preavvisi, le dissi. Ma forse aspetta, disse lei, sempre più scaltra di qualsiasi uomo, e mi chiese un minimo di due giorni per vagliare bene il mercato. Io le replicai serio che in un affare come quello, alla mia età, ogni ora è un anno. Allora non si può, disse lei senza un'ombra di dubbio, ma non importa, così è più emozionante, cazzo, ti chiamo fra un'ora. Io non ho bisogno di dirlo, perché lo si nota a leghe di distanza: sono brutto, timido e anacronistico. Ma a forza di non volerlo essere sono riuscito a fingere tutto il contrario. Fino a questo giorno presente, in cui decido di raccontarmi come sono per mia stessa e libera volontà, anche solo per sgravarmi la coscienza. Ho cominciato con la telefonata insolita a Rosa Cabarcas, perché, considerato in prospettiva, quello fu il principio di una nuova vita a un'età in cui la maggior parte dei mortali è morta. Abito in una casa coloniale sul marciapiede esposto al sole del parco di San Nicolàs, dove ho passato tutti i giorni della mia vita senza moglie né fortuna, dove hanno vissuto e sono morti i miei genitori, e dove mi sono proposto di morire solo, nello stesso letto in cui sono nato e in un giorno che mi auguro lontano e senza dolore. Mio padre la comprò a un'asta pubblica verso la fine del XIX secolo, affittò il pianterreno per negozi di lusso a un consorzio di italiani, e si riservò questo secondo piano per vivere felice con la figlia di uno di loro, Florina de Dios Cargamantos, interprete ragguardevole di Mozart, poliglotta e garibaldina, e la donna più bella e di maggior talento che ci fu mai in città: mia madre. Gli interni sono ampi e luminosi, con archi di stucco e pavimenti a scacchiera di piastrelle fiorentine, e quattro porte a vetri su un balcone coperto dove mia madre si sedeva nelle sere di marzo a cantare arie d'amore con le sue cugine italiane. Di lì si vede il parco di San Nicolàs con la cattedrale e la statua di Cristoforo Colombo, e più in là i magazzini del porto fluviale e il vasto orizzonte del Rio Grande della Magdalena a venti leghe dal suo estuario. L'unica cosa brutta della casa è che il sole passa da una finestra all'altra nell'arco della giornata, e bisogna chiuderle tutte per cercare di fare la siesta nella penombra ardente. Quando rimasi solo, a trentadue anni, mi trasferii in quella che era stata l'alcova dei miei genitori, aprii una porta di comunicazione con la biblioteca e, per vivere, iniziai a vendere all'asta tutto quello che mi avanzava e che finì per essere quasi tutto, tranne i libri e la pianola a pedali. Per quarant'anni i sono stato il rimpolpatore di dispacci del "Diario de la Paz", che consisteva nel ricostruire e completare in prosa indigena le notizie dal mondo che acchiappavamo al volo nello spazio siderale attraverso le onde corte o l'alfabeto Morse. Oggi mi mantengo bene o male con la mia pensione di quel mestiere estinto; mi mantengo di meno con quella di professore di grammatica spagnola e latino, quasi niente con l'articoletto domenicale che ho scritto senza strepiti per oltre mezzo secolo, e niente di niente con i pezzi di cronaca musicale e teatrale che mi fanno il favore di pubblicare quando arrivano interpreti di rilievo. Non ho mai fatto nulla di diverso dallo scrivere, ma non ho la vocazione né le virtù del narratore, ignoro del tutto le leggi della composizione drammatica, e se mi sono imbarcato in questa impresa è perché confido nei lumi di tutto quanto ho letto durante la mia vita. In parole nude e crude, sono un individuo senza merito né spicco, che non avrebbe nulla da lasciare ai suoi sopravvissuti se non fosse per gli eventi che mi accingo a riferire come posso in queste memorie del mio grande amore. Il giorno dei miei novant'anni si era levato, come sempre, alle cinque del mattino. Il mio unico impegno, essendo venerdì, era scrivere l'articoletto firmato che esce la domenica sul "Diario de la Paz". I sintomi dell'alba erano stati perfetti per non essere felice: mi facevano male le ossa già di buon'ora, mi bruciava il culo, e c'erano tuoni di temporale dopo tre mesi di siccità. Mi lavai mentre saliva il caffè, ne bevvi un tazzone addolcito con miele di api e accompagnato da due pagnottelle di cassava, e mi infilai la tuta per stare in casa.
(…)

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