dipinto di Paul Schulenburg
da “Il libro dell’inquietudine”
– Fernando Pessoa
458.
Sapendo
perfettamente come le cose più insignificanti siano capaci di torturarmi,
volutamente evito il contatto con le minime cose. Chi, come me, soffre perché
una nube passa davanti al sole, come potrebbe non soffrire nel buio del giorno
perennemente coperto della sua vita? Il mio isolamento non è una ricerca di
felicità, che io non ho la forza di raggiungere; né un desiderio di
tranquillità, che nessuno ottiene salvo non averla mai perduta… ma una ricerca
di sonno, di annullamento, di modesta rinuncia. Le quattro pareti della mia
misera stanza sono per me, allo stesso tempo, prigione e distanza, letto e
bara. Le mie ore più felici sono quelle in cui non penso a nulla, non ho
desiderio di nulla, e in cui non sogno neppure, perso in un torpore da vegetale
anomalo, da mero muschio che cresce sulla superficie della vita. Assaporo senza
amarezza l’assurda coscienza di non essere nulla, in cui pregusto la morte e il
dissolvimento. Non ho mai avuto nessuno da poter chiamare “Maestro”. Nessun
Cristo è morto per me. Nessun Budda mi ha indicato il cammino. Nel cielo dei
miei sogni nessun Apollo o Atena sono apparsi ad illuminare il mio spirito.
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