dipinto di Kenton Nelson
da “Gli amori difficili”. L'avventura di un fotografo, (1955) – Italo Calvino
(…)
Si liberò dal drappo
e si rialzò. Stava sbagliando tutto da principio. Quell'espressione
quell'accento quel segreto che gli sembrava d'esser lì lì per cogliere sul viso
di lei era qualcosa che lo trascinava nelle sabbie mobili degli stati d'animo,
degli umori, della psicologia: era anche lui uno di quelli che inseguono la
vita che sfugge, un cacciatore dell'inafferrabile, come gli scattatori
d'istantanee. Doveva seguire la via opposta: puntare su un ritratto tutto in
superficie, palese, univoco, che non rifuggisse dall'apparenza convenzionale,
stereotipa, dalla maschera. La maschera, essendo innanzi tutto un prodotto
sociale, storico, contiene più verità d'ogni immagine che si pretenda «vera»;
porta con sé una quantità di significati che si riveleranno a poco a poco. Non era
proprio con questo intento che Antonino aveva messo su quel baraccone d'uno
studio?
Osservò Bice. Doveva
partire dagli elementi esteriori del suo aspetto. Nel modo di vestirsi e acconciarsi
di Bice, - pensò, - era riconoscibile l'intenzione un po' nostalgica un po' ironica,
diffusa nel gusto di quegli anni, di richiamarsi alla moda di trent'anni prima.
La fotografia avrebbe dovuto accentuare quest'intenzione: come mai non ci aveva
pensato?
Antonino andò a
cercare una racchetta da tennis; Bice doveva stare in piedi, di tre quarti, con
la racchetta sotto il braccio, atteggiando il viso a un'espressione da
cartolina sentimentale. Ad Antonino, da sotto la mantella nera, l'immagine di
Bice - in ciò che aveva di snello e adatto a quella posa e in ciò che aveva
d'inadatto e quasi incongruo e che la posa accentuava, - parve molto
interessante. La fece cambiare più volte di posizione, studiando la geometria
delle gambe e delle braccia in rapporto alla racchetta e a un elemento di
sfondo. (Nella cartolina ideale che egli aveva in mente ci doveva essere la rete
del campo di tennis, ma non si poteva pretendere troppo e Antonino si contentò
d'un tavolo da pingpong).
Però ancora non si
sentiva su terreno sicuro: non stava per caso cercando di fotografare dei
ricordi, anzi, dei vaghi echi di odo dei fotografi della domenica, non lo
portava a tentare un'operazione altrettanto irreale, cioè a dare un corpo al
ricordo per sostituirlo al presente davanti ai suoi occhi?
- Muoviti, cosa stai
lì impalata, alza quella racchetta, accidenti! Fa come se giocassi a tennis! - s'infuriò
tutt'a un tratto. Aveva capito che solo esasperando le pose si poteva
raggiungere un'estraneità oggettiva; solo fingendo un movimento arrestato a
metà si poteva dare l'impressione del fermo, del non vivente.
(…)
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