23 settembre 2018

Il re di Harlem – Federico Garcia Lorca

Spirit of Harlem -  Mural By Louis del Sarte Livens Up 125th Street
Il re di Harlem – Federico Garcia Lorca

Con un cucchiaio di legno
strappava gli occhi ai coccodrilli
e bastonava il sedere delle scimmie.
Con un cucchiaio di legno.

Il fuoco di sempre dormiva nella selce
e gli scarafaggi ubriachi d’anice
dimenticavano il muschio dei villaggi.

Quel vecchio coperto di funghi
andava là dove piangevano i neri
mentre cricchiava il cucchiaio del re
e arrivavano le cisterne di acqua putrida.

Le rose fuggivano lungo il filo
delle ultime curve di vento
e nei mucchi di zafferano
i bambini martoriavano piccoli scoiattoli
con un rossore di frenesia macchiata.

Bisogna attraversare i ponti
e arrivare al rumore nero
perché il profumo di polmone
ci martelli le tempie col suo vestito
di ananas caldo.

Bisogna ammazzare il biondo venditore di acquavite,
tutti gli amici della mela e della sabbia;
ed è necessario colpire a pugni chiusi
le piccole ebree che tremano piene di bollicine,
perche il re di Harlem canti con la sua folla,
perché i coccodrilli dormano in lunghe file,
sotto l’amianto della luna,
e perché nessuno dubiti dell’infinita bellezza
dei piumini, delle grattugie, dei rami e dei tegami delle cucine.

Ahi, Harlem! Ahi, Harlem! Ahi, Harlem!
Non c’è angoscia paragonabile ai tuoi occhi oppressi,
al tuo sangue rabbrividito dentro l’eclissi oscura,
alla tua violenza scarlatta, sordomuta nella penombra,
al tuo grande re prigioniero, con la divisa di usciere.
                                          ***
La notte aveva una fessura e quiete salamandre d’avorio.
Le ragazze americane
portavano bambini e monete nel ventre
e i ragazzi svenivano nella croce dello stiracchiamento.
Sono loro.
Sono loro quelli che bevono il whisky d’argento vicino ai vulcani
e inghiottono pezzettini di cuore sulle gelate montagne dell’orso.

Quella notte il re di Harlem, con un durissimo cucchiaio,
strappava gli occhi ai coccodrilli
e bastonava il sedere delle scimmie.
Con un durissimo cucchiaio.

I neri piangevano confusi
tra ombrelli e soli d’oro;
i mulatti stiravano gonne, ansiosi di arrivare al torso bianco,
e il vento appannava gli specchi
e spezzava le vene ai ballerini.

Neri! Neri! Neri! Neri!
Il sangue non ha porte nella vostra notte a pancia in su.
Non c’è rossore. Sangue furioso al di sotto delle pelli,
vivo sulla punta del pugnale e nel petto dei paesaggi,
sotto le pinze e le ginestre di una celesta luna del Cancro.

Sangue che cerca per mille strade morti infarinate e cenere di nardi,
cieli deserti, in discesa, dove le colonie dei pianeti
rotolino sulle spiagge con gli oggetti abbandonati.

Sangue che guarda lento con la coda dell’occhio,
fatto di sparti strizzati e nettari sotterranei.
Sangue che ossida l’aliseo trascurato in un’orma
e dissolve le farfalle sui vetri della finestra.

È il sangue che viene, che verrà
per i tetti e le terrazze, da ogni parte,
per bruciare la clorofilla delle donne bionde,
per gemere ai piedi dei letti, davanti all’insonnia dei lavandini,
ed esplodere in un’aurora di tabacco e giallo smorto.

Bisogna scappare!,
scappare dietro gli angoli e chiudersi negli ultimi piani,
perché l’intimo del bosco penetrerà dalle fenditure
lasciando nella vostra carne una lieve orma di eclisse
e una falsa tristezza di guanto scolorito e rosa chimica.
                                          ***
È attraverso il silenzio sapientissimo
che cuochi e camerieri e quelli che puliscono con la lingua
le ferite dei milionari
cercano il re per le strade o negli angoli del salnitro.
Un vento ligneo del sud a sguancio sul fango nero
sputa alle barche rotte e si pianta stiletti nelle spalle.
Un vento del sud che porta
zanne, girasoli, alfabeti,
e una pila di Volta con le vespe affogate.

L’oblio si esprimeva con tre gocce d’inchiostro sul moccolo.
L’amore, con un solo volto invisibile a fior di pietra.
Midolli e corolle componevano sulle nuvole
un deserto di talli, senza una sola rosa.

A sinistra, a destra, verso Sud e verso Nord,
si alza il muro impassibile
per la talpa e il punzone dell’acqua.
Non cercatene, neri, la crepa
per trovare la maschera infinita.
Cercate il grande sole del centro
divenuto ananas ronzante.
Il sole che scivola sui boschi
certo di non incontrare una ninfa.
Il sole che distrugge numeri e non ha mai attraversato un sogno,
il sole tatuato che scende per il fiume
e muggisce seguito dai caimani.

Neri! Neri! Neri! Neri!
Mai serpe, né zebra, né mula
sono impallidite morendo.
Il tagliaboschi non sa quando spirano
i clamorosi alberi da abbattere.
Aspettare sotto l’ombra vegetale del vostro re
che le cicute, i cardi e le ortiche turbino le estreme terrazze.

Allora, neri, allora, allora,
potete baciare con frenesia le ruote delle biciclette,
mettere coppie di microscopi nelle tane degli scoiattoli
e alla fine di certo danzare, mentre i fiori increspati
assassinano il nostro Mosè quasi nei giunchi del cielo.

Ahi, Harlem mascherata!
Ahi, Harlem, minacciata da una folla di vestiti senza testa!
Mi giunge il tuo rumore.
Mi giunge il tuo rumore che attraversa tronchi e ascensori,
attraverso lamine grigie,
dove galleggiano le tue automobili coperti di denti,
attraverso i cavalli morti e i crimini minuscoli,
attraverso il tuo grande re disperato
la cui barba arriva fino al mare.

Traduzione di Valerio Nardoni

da Federico Garcia Lorca, Nuda canta la notte, a cura di Valerio Nardoni

Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti

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