da Marcovaldo – Italo
Calvino
Estate
La villeggiatura in panchina
Andando
ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde d'una piazza alberata,
un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. Alzava
l'occhio tra le fronde degli ippocastani, dov'erano più folte e solo lasciavano
dardeggiare gialli raggi nell'ombra trasparente di linfa, ed ascoltava il
chiasso dei passeri stonati ed invisibili sui rami. A lui parevano usignoli; e
si diceva: «Oh, potessi destarmi una volta al cinguettare degli uccelli e non
al suono della sveglia e allo strillo del neonato Paolino e all'inveire di mia
moglie Domitilla!» oppure: «Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo
fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel russare
e parlare nel sonno di tutta la famiglia e correre di tram giù nella strada;
qui nel buio naturale della notte, non in quello artificiale delle persiane
chiuse, zebrato dal riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e ciclo
aprendo gli occhi! » Con questi pensieri tutti i giorni Marcovaldo incominciava
le sue otto ore giornaliere – più gli straordinari – di manovale non
qualificato.
C'era,
in un angolo della piazza, sotto una cupola d'ippocastani, una panchina
appartata e seminascosta. E Marcovaldo l'aveva prescelta come sua. In quelle
notti d'estate, quando nella camera in cui dormivano in cinque non riusciva a
prendere sonno, sognava la panchina come un senza tetto può sognare il letto
d'una reggia. Una notte, zitto, mentre la moglie russava ed i bambini
scalciavano nel sonno, si levò dal letto, si vestì, prese sottobraccio il suo
guanciale, uscì e andò alla piazza.
Là
era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d'un legno –
ne era certo – morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso
del suo letto; avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli
occhi in un sonno riparatore d'ogni offesa della giornata.
Il
fresco e la pace c'erano, ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati, guardandosi
negli occhi. Marcovaldo, discreto, si ritrasse. «È tardi, – pensò, – non passeranno
mica la notte all'aperto! La finiranno di tubare!»
Ma
i due non tubavano mica: litigavano. E tra due innamorati un litigio non si può
dire mai a che ora andrà a finire.
Lui
diceva: – Ma tu non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi di
farmi dispiacere anziché piacere come facevi finta di credere?
Marcovaldo
capì che sarebbe andata per le lunghe.
–
No, non l'ammetto, – rispose lei, e Marcovaldo già se l'aspettava.
–
Perché non l'ammetti?
–
Non l'ammetterò mai.
«Ahi»,
pensò Marcovaldo. Col suo guanciale stretto sotto il braccio, andò a fare un
giro. Andò a guardare la luna, che era piena, grande sugli alberi e i tetti.
Tornò verso la panchina, girando un po' al largo per lo scrupolo di
disturbarli, ma in fondo sperando di dar loro un po' di noia e persuaderli ad
andarsene. Ma erano troppo infervorati nella discussione per accorgersi di lui.
–
Allora ammetti?
–
No, no, non lo ammetto affatto! – Ma ammettendo che tu ammettessi?
–
Ammettendo che ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere tu!
Marcovaldo
tornò a guardare la luna, poi andò a guardare un semaforo che c'era un po' più
in là. Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e riaccendersi.
Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col suo pallore misterioso,
giallo anch'esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il semaforo con quel suo
gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la sua luce senza fretta,
venata ogni tanto di sottili resti di nubi, che lei con maestà si lasciava
cadere alle spalle; e il semaforo intanto sempre lì accendi e spegni, accendi e
spegni, affannoso, falsamente vivace, stanco e schiavo.
Tornò
a vedere se la ragazza aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi non era più
lei
a non ammettere, ma lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che
diceva a lui: Allora, ammetti? – e lui a dire di no. Così passò mezz'ora. Alla
fine lui ammise, o lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene
tenendosi per mano.
Corse
alla panchina, si buttò giù, ma intanto, nell'attesa, un po' della dolcezza che
s'aspettava di trovarvi non era più nella disposizione di sentirla, e anche il
letto di casa non lo ricordava più così duro. Ma queste erano sfumature, la sua
intenzione di godersi la notte all'aperto era ben ferma: sprofondò il viso nel
guanciale e si dispose al sonno, a un sonno come da tempo ne aveva smesso
l'abitudine.
Ora
aveva trovato la posizione più comoda. Non si sarebbe spostato d'un millimetro
per nulla al mondo. Peccato soltanto che a stare così, il suo sguardo non
cadesse su di una prospettiva d'alberi e ciclo soltanto, in modo che il sonno
gli chiudesse gli occhi su una visione di assoluta serenità naturale, ma davanti
a lui si succedessero, in scorcio, un albero, la spada d'un generale dall'alto
del suo monumento, un altro albero, un tabellone delle affissioni pubbliche, un
terzo albero, e poi, un po' più lontano, quella falsa luna intermittente del
semaforo che continuava a sgranare il suo giallo, giallo, giallo.
Bisogna
dire che in questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in così cattivo
stato che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla, bastava si
mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E adesso
gli dava fastidio quel semaforo che s'accendeva e si spegneva. Era laggiù,
lontano, un occhio giallo che ammicca, solitario: non ci sarebbe stato da farci
caso. Ma Marcovaldo doveva proprio essersi buscato un esaurimento: fissava
quell'accendi e spegni e si ripeteva: «Come dormirei bene se non ci fosse
quell'affare! Come dormirei bene! » Chiudeva gli occhi e gli pareva di sentire
sotto le palpebre l'accendi e spegni di quello sciocco giallo; strizzava gli
occhi e vedeva decine di semafori; li riapriva, era sempre daccapo. S'alzò.
Doveva mettere uno schermo tra sé e il semaforo. Andò fino al monumento del generale
e guardò intorno. Ai piedi del monumento c'era una corona d'alloro, bella spessa,
ma ormai secca e mezzo spampanata, montata su bacchette, con un gran nastro sbiadito:
«7 Lancieri del Quindicesimo nell'Anniversario della Gloria». Marcovaldo s'arrampicò
sul piedestallo, issò la corona, la infilò alla sciabola del generale.
Il
vigile notturno Tornaquinci in perlustrazione attraversava la piazza in
bicicletta; Marcovaldo s'appostò dietro la statua. Tornaquinci aveva visto sul
terreno l'ombra del
monumento
muoversi: si fermò pieno di sospetto. Scrutò quella corona sulla sciabola, capì
che c'era qualcosa fuori posto, ma non sapeva bene che cosa. Puntò lassù la
luce d'una lampadina a riflettore, lesse: «I Lancieri del Quindicesimo
nell'Anniversario della Gloria», scosse il capo in segno d'approvazione e se ne
andò.
Per
lasciarlo allontanare, Marcovaldo rifece il giro della piazza. In una via
vicina, una squadra d'operai stava aggiustando uno scambio alle rotaie del
tram. Di notte, nelle vie deserte, quei gruppetti d'uomini accucciati al
bagliore dei saldatori autogeni, e le voci che risuonano e poi subito si
smorzano, hanno un'aria segreta come di gente che prepari cose che gli abitanti
del giorno non dovranno mai sapere. Marcovaldo si avvicinò, stette a guardare
la fiamma, i gesti degli operai, con un'attenzione un po' impacciata e gli
occhi che gli venivano sempre più piccoli dal sonno. Cercò una sigaretta in
tasca, per tenersi sveglio, ma non aveva cerini.
–
Chi mi fa accendere? – chiese agli operai.
–
Con questo? – disse l'uomo della fiamma ossidrica, lanciando un volo di
scintille.
Un
altro operaio s'alzò, gli porse la sigaretta accesa.
–
Fa la notte anche lei?
–
No, faccio il giorno, – disse Marcovaldo.
–
E cosa fa in piedi a quest'ora? Noi tra poco si smonta.
Ritornò
alla panchina. Si sdraiò. Ora il semaforo era nascosto alla sua vista; poteva addormentarsi,
finalmente. Non aveva badato al rumore, prima. Ora, quel ronzio, come un cupo
soffio aspirante e insieme come un raschio interminabile e anche uno sfrigolio,
continuava a occupargli gli orecchi. Non c'è suono più struggente di quello
d'un saldatore, una specie d'urlo sottovoce. Marcovaldo, senza muoversi,
rannicchiato com'era sulla panca, il viso contro il raggrinzito guanciale, non
vi trovava scampo, e il rumore continuava a evocargli la scena illuminata dalla
fiamma grigia che spruzzava scintille d'oro intorno, gli uomini accoccolati in
terra col vetro affumicato davanti al viso, la pistola del saldatore nella mano
mossa da un tremito veloce, l'alone d'ombra intorno al carrello degli attrezzi,
all'alto castello di traliccio che arrivava fino ai fili. Aperse gli occhi, si
rigirò sulla panca, guardò le stelle tra i rami. I passeri insensibili
continuavano a dormire lassù in mezzo alle foglie. Addormentarsi come un
uccello, avere un'ala da chinarci sotto il capo, un mondo di frasche sospese
sopra il mondo terrestre, che appena s'indovina laggiù, attutito e remoto. Basta
cominciare a non accettare il proprio stato presente e chissamai dove s'arriva:
ora Marcovaldo per dormire aveva bisogno d'un qualcosa che non sapeva bene
neanche lui, neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un
fondo di rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto
d'un sottobosco, o un mormorio d'acqua che rampolla e si perde in un prato. Aveva
un'idea in testa e s'alzò. Non proprio un'idea, perché mezzo intontito dal
sonno che aveva in pelle in pelle, non spiccicava bene alcun pensiero; ma come
il ricordo che là intorno ci fosse qualche cosa connessa all'idea dell'acqua,
al suo scorrere garrulo e sommesso.
Difatti
c'era una fontana, lì vicino, illustre opera di scultura e d'idraulica, con
ninfe, fauni, dèi fluviali, che intrecciavano zampilli, cascate e giochi
d'acqua. Solo che era asciutta: alla notte, d'estate, data la minor
disponibilità dell'acquedotto, la chiudevano. Marcovaldo girò lì intorno un po'
come un sonnambulo; più che per ragionamento per istinto sapeva che una vasca
deve avere un rubinetto. Chi ha occhio, trova quel che cerca anche a occhi chiusi.
Aperse il rubinetto: dalle conchiglie, dalle barbe, dalle froge dei cavalli si
levarono alti getti, i finti anfratti si velarono di manti scintillanti, e
tutta quest'acqua suonava come l'organo d'un coro nella grande piazza vuota, di
tutti i fruscii e gli scrosci che può fare l'acqua messi insieme. Il vigile
notturno Tornaquinci, che ripassava in bicicletta nero nero a mettere
bigliettini sotto gli usci, al vedersi esplodere tutt'a un tratto davanti agli
occhi la fontana come un liquido fuoco d'artificio, per poco non cascò di
sella.
Marcovaldo,
cercando d'aprir gli occhi meno che poteva per non lasciarsi sfuggire quel filo
di sonno che gli pareva d'aver già acchiappato, corse a ributtarsi sulla panca.
Ecco, adesso era come sul ciglio d'un torrente, col bosco sopra di lui, ecco,
dormiva. Sognò un pranzo, il piatto era coperto come per non far raffreddare la
pasta. Lo scoperse e c'era un topo morto, che puzzava. Guardò nel piatto della
moglie: un'altra carogna di topo. Davanti ai figli, altri topini, più piccoli
ma anch'essi mezzo putrefatti. Scoperchiò la zuppiera e vide un gatto con la
pancia all'aria, e il puzzo lo svegliò.
Poco
distante c'era il camion della nettezza urbana che va la notte a vuotare i
tombini dei rifiuti. Distingueva, nella mezzaluce dei fanali, la gru che
gracchiava a scatti, le ombre degli uomini ritti in cima alla montagna di
spazzatura, che guidavano per mano il recipiente appeso alla carrucola, lo
rovesciavano nel camion, pestavano con colpi di pala, con voci cupe e rotte
come gli strappi della gru: – Alza... Molla... Va' in malora... – e certi cozzi
metallici come opachi gong, e il riprendere del motore, lento, per poi fermarsi
poco più in là e ricominciare la manovra.
Ma
il sonno di Marcovaldo era ormai in una zona in cui i rumori non lo
raggiungevano più, e quelli poi, pur così sgraziati e raschianti, venivano come
fasciati da un alone soffice d'attutimento, forse per la consistenza stessa
della spazzatura stipata nei furgoni: ma era il puzzo a tenerlo sveglio, il
puzzo acuito da un'intollerabile idea di puzzo, per cui anche i rumori, quei rumori
attutiti e remoti, e l'immagine in controluce dell'autocarro con la gru non
giungevano alla mente come rumore e vista ma soltanto come puzzo. E Marcovaldo smaniava,
inseguendo invano con la fantasia delle narici la fragranza d'un roseto.
Il
vigile notturno Tornaquinci si sentì la fronte madida di sudore intravedendo
un'ombra umana correre carponi per un'aiolà, strappare rabbiosamente dei
ranuncoli e sparire. Ma pensò essersi trattato o d'un cane, di competenza degli
accalappiacani, o d'un'allucinazione, di competenza del medico alienista, o
d'un licantropo, di competenza non si sa bene di chi ma preferibilmente non
sua, e scantonò.
Intanto,
Marcovaldo, ritornato al suo giaciglio, si premeva contro il naso il convulso
mazzo di ranuncoli, tentando di colmarsi l'olfatto del loro profumo: poco ne
poteva però spremere da quei fiori quasi inodori; ma già la fragranza di
rugiada, di terra e d'erba pesta era un gran balsamo. Cacciò l'ossessione
dell'immondizia e dormì. Era l'alba.
Il
risveglio fu un improvviso spalancarsi di ciclo pieno di sole sopra la sua
testa, un sole che aveva come cancellato le foglie e le restituiva alla vista
semicieca a poco a poco. Ma Marcovaldo non poteva indugiare perché un brivido
l'aveva fatto saltar su: lo spruzzo d'un idrante, col quale i giardinieri del
Comune innaffiano le aiole, gli faceva correre freddi rivoli giù per i vestiti.
E intorno scalpitavano i tram, i camion dei mercati, i carretti a mano, i
furgoncini, e gli operai sulle biciclette a motore correvano alle fabbriche e
le saracinesche dei negozi precipitavano verso l'alto, e le finestre delle case
arrotolavano le persiane, e i vetri sfavillavano. Con la bocca e gli occhi
impastati, stranito, con la schiena dura e un fianco pesto, Marcovaldo correva
al suo lavoro.
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