opera di Francine van Hove
da “Tuttomio – Andrea Camilleri
(…)
Trattiene un poco il respiro per continuare a immaginarsi morta dentro la bara del sonno. Ma è un tentativo inutile, è stata irrevocabilmente richiamata in vita.
E quindi deve fare le cose che fanno i vivi.
Ispira profondamente, si riempie i polmoni dell’odore notturno di se stessa che il lenzuolo ha trattenuto.
Deve ave sudato molto per il caldo e lei ama il suo sudore.
Ha scoperto di avere due tipi di sudore, ognuno dei quali ha un odore diverso.
Il sudore dovuto al caldo odora di colonia d’erbe e ha un colore verde smeraldino, quello dovuto all’amore ha invece un odore forte di muschio e un colore verde scuro.
solleva un braccio sino a che l’ascella viene a trovarsi all’altezza del naso, lo lascia così per un poco, respirandosi.
Ora è tornata a essere compiutamente viva.
Sente il cuore che pulsa forte e ritmico – FUNF FUNF FUNF – e risuona alle sue orecchie come la caldaia di una locomotiva in sosta.
Piega e raddrizza ripetutamente le dita del piede sinistro.
“Ciao, piede, come stai?”
Fa lo stesso con l’altro.
“E tu?”
Ora una mano scende ad accarezzare il polpaccio sinistro.
“Ciao, polpaccio.”
Da adolescente aveva la fissazione che i suoi polpacci fossero troppo grossi, come quelli di quasi tutte le contadine delle sue parti, e ogni volta, appena sveglia, passava almeno una mezz’oretta a lisciarseli nella speranza di riuscire ad affusolarli.
E prima aveva patito la paura che le venissero le tette troppo grandi.
Di nascosto da nonna se le fasciava strette strette con un fazzolettone che a momenti non le riusciva più di respirare. Per strada camminava con le spalle curve nel tentativo di farle sporgere di meno.
A convincerla che aveva delle gambe splendide e delle tette da antologia era stato il professore di filosofia, al terzo liceo, quello col nome buffo, Adelchi, che spesso interrompeva la ripetizione e la faceva mettere davanti allo specchio.
Quando Elena bussa discretamente alla porta, lei è riuscita a dare il buongiorno al suo corpo fino alla gola.
“Entra.”
“Dormito bene, signora?”
Non risponde.
Parlare senza prima aver bevuro il caffè le è praticamente impossibile. Già rispondere a Giulio è stata una fatica improba.
Elena poggia il vassoio con la tazzina sul comodino.
“Le apro di più la finestra?”
“No.”
“Le preparo il bagno?”
“Sì.”
appena Elena è uscita, riprende la cerimonia dei saluti.
“Ciao mento.”
Quando finisce di salutarsi anche i capelli, si tira su a mezzo, sistema meglio i due cuscini dietro la schiena, prende la tazzina di caffè amaro, se la porta alle labbra.
Dopo si accende la prima sigaretta della giornata.
Aspira lentamente, distanziando una boccata dall’altra e trattenendo dentro i sé il fumo il più a lungo possibile.
“Il bagno è pronto, signora.”
Spegne la sigaretta, scende dal letto, attraversa lo spogliatoio, entra nel bagno che ha tutte le luci accese.
Si leva la corta camicia da notte trasparente, si guarda nello specchi grande quanto mezza parete.
Niente male, proprio niente male per una che ha compiuto trentatré anni quattro giorni prima.
Flette i muscoli delle gambe, fa delle mezze torsioni, piega ripetutamente il busto avanti e dietro, ma non sta facendo ginnastica, non l’ha mai fatta, è una sorta di controllo generale del suo corpo.
E’ soddisfatta, si sente snodata, flessuosa, sciolta, un meccanismo di precisione ben costruito e ben tenuto, pronto a mettersi in moto appena lei lo chiede.
Va a sedersi sulla tazza. Tutte le funzioni si attivano alla perfezione.
Canticchia.
(…)
(…)
Trattiene un poco il respiro per continuare a immaginarsi morta dentro la bara del sonno. Ma è un tentativo inutile, è stata irrevocabilmente richiamata in vita.
E quindi deve fare le cose che fanno i vivi.
Ispira profondamente, si riempie i polmoni dell’odore notturno di se stessa che il lenzuolo ha trattenuto.
Deve ave sudato molto per il caldo e lei ama il suo sudore.
Ha scoperto di avere due tipi di sudore, ognuno dei quali ha un odore diverso.
Il sudore dovuto al caldo odora di colonia d’erbe e ha un colore verde smeraldino, quello dovuto all’amore ha invece un odore forte di muschio e un colore verde scuro.
solleva un braccio sino a che l’ascella viene a trovarsi all’altezza del naso, lo lascia così per un poco, respirandosi.
Ora è tornata a essere compiutamente viva.
Sente il cuore che pulsa forte e ritmico – FUNF FUNF FUNF – e risuona alle sue orecchie come la caldaia di una locomotiva in sosta.
Piega e raddrizza ripetutamente le dita del piede sinistro.
“Ciao, piede, come stai?”
Fa lo stesso con l’altro.
“E tu?”
Ora una mano scende ad accarezzare il polpaccio sinistro.
“Ciao, polpaccio.”
Da adolescente aveva la fissazione che i suoi polpacci fossero troppo grossi, come quelli di quasi tutte le contadine delle sue parti, e ogni volta, appena sveglia, passava almeno una mezz’oretta a lisciarseli nella speranza di riuscire ad affusolarli.
E prima aveva patito la paura che le venissero le tette troppo grandi.
Di nascosto da nonna se le fasciava strette strette con un fazzolettone che a momenti non le riusciva più di respirare. Per strada camminava con le spalle curve nel tentativo di farle sporgere di meno.
A convincerla che aveva delle gambe splendide e delle tette da antologia era stato il professore di filosofia, al terzo liceo, quello col nome buffo, Adelchi, che spesso interrompeva la ripetizione e la faceva mettere davanti allo specchio.
Quando Elena bussa discretamente alla porta, lei è riuscita a dare il buongiorno al suo corpo fino alla gola.
“Entra.”
“Dormito bene, signora?”
Non risponde.
Parlare senza prima aver bevuro il caffè le è praticamente impossibile. Già rispondere a Giulio è stata una fatica improba.
Elena poggia il vassoio con la tazzina sul comodino.
“Le apro di più la finestra?”
“No.”
“Le preparo il bagno?”
“Sì.”
appena Elena è uscita, riprende la cerimonia dei saluti.
“Ciao mento.”
Quando finisce di salutarsi anche i capelli, si tira su a mezzo, sistema meglio i due cuscini dietro la schiena, prende la tazzina di caffè amaro, se la porta alle labbra.
Dopo si accende la prima sigaretta della giornata.
Aspira lentamente, distanziando una boccata dall’altra e trattenendo dentro i sé il fumo il più a lungo possibile.
“Il bagno è pronto, signora.”
Spegne la sigaretta, scende dal letto, attraversa lo spogliatoio, entra nel bagno che ha tutte le luci accese.
Si leva la corta camicia da notte trasparente, si guarda nello specchi grande quanto mezza parete.
Niente male, proprio niente male per una che ha compiuto trentatré anni quattro giorni prima.
Flette i muscoli delle gambe, fa delle mezze torsioni, piega ripetutamente il busto avanti e dietro, ma non sta facendo ginnastica, non l’ha mai fatta, è una sorta di controllo generale del suo corpo.
E’ soddisfatta, si sente snodata, flessuosa, sciolta, un meccanismo di precisione ben costruito e ben tenuto, pronto a mettersi in moto appena lei lo chiede.
Va a sedersi sulla tazza. Tutte le funzioni si attivano alla perfezione.
Canticchia.
(…)
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