27 luglio 2018

da “Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke

Carl Vilhelm Holsøe - Salon interior with woman
da “Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke
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Qua e là si trovava una cascina o una fattoria dove mi davano pane, latte e frutta, e credo di aver goduto di questa libertà con abbastanza spensieratezza senza lasciarmi spaventare, almeno nelle ultime settimane, dal pensiero delle riunioni serali. Non parlavo quasi con nessuno, ero felice di essere solo; soltanto con i cani avevo di quando in quando dei brevi colloqui e con loro mi capivo benissimo. L’essere taciturni era del resto una proprietà di famiglia; lo sapevo da mio padre e non mi meravigliavo se la sera a tavola non si parlava quasi affatto.
Pure nei primi giorni dopo il nostro arrivo Matilde Brahe si mostrò straordinariamente loquace. Domandava a mio padre di antichi conoscenti in città straniere, ricordava impressioni remote e si commoveva fino alle lacrime citando amiche morte o parlando di un giovane che pare l’avesse amata di una passione intensa e disperata ma non corrisposta. Mio padre ascoltava garbatamente, chinava ogni tanto il capo in segno di approvazione e rispondeva solo quando era indispensabile. Il vecchio a capotavola sorrideva di continuo con le labbra socchiuse, e il suo viso appariva più grande del solito, e allora non si rivolgeva a nessuno, ma la sua voce, benché fosse molto piana, si udiva in tutta la sala; aveva qualcosa del ritmo neutro e regolare di un orologio; e sembrava che l’aria intorno avesse una risonanza vuota, uguale per ogni sillaba.
Il conte Brahe considerava una speciale cortesia verso mio padre il parlargli della moglie morta, di mia madre. La chiamava la contessa Sibilla e tutte le sue frasi si concludevano come se chiedesse di lei. Me la faceva apparire, non so perché, come una ragazza molto giovane, vestita di bianco, che da un momento all’altro potesse entrare fra noi. Nello stesso tono sentivo parlare anche della «nostra piccola Anna Sofia». E quando un giorno
chiesi di questa fanciulla che il nonno sembrava avere particolarmente cara, seppi che egli parlava della figlia del Gran Cancelliere Konrad Reventlow, un tempo sposa morganatica di Federico Quarto, ora sepolta a Roskilde da quasi cento anni. La successione del tempo non aveva senso per lui; la morte era un piccolo incidente che egli ignorava del tutto; le persone che erano entrate una volta nella sua memoria esistevano, e la morte non portava alcun cambiamento. Molti anni più tardi, dopo la morte del vecchio, mi dissero che con la stessa sicurezza egli considerava presente anche il futuro. Una volta aveva parlato a una giovane donna dei suoi figli e in particolare dei viaggi che uno di questi figli avrebbe compiuto, mentre la donna, che si trovava appena nel terzo mese della sua prima gravidanza, sentendolo parlare con tanta pacatezza, era quasi svenuta di sgomento e di paura.
Ma cominciò così, che una sera io risi. Sì, risi forte, e non potei trattenermi. Era una sera in cui mancava Matilde Brahe. Tuttavia il vecchio domestico quasi cieco arrivato al suo posto le offerse ugualmente il piatto. Si fermò così per un attimo, poi continuò soddisfatto e dignitoso come se tutto fosse in regola. Io avevo osservato la scena e nel momento in cui l’avevo vista non mi era parsa comica. Ma un momento più tardi, proprio mentre portavo un boccone alla labbra, il riso mi salì così rapidamente alla testa che singhiozzai e feci un gran rumore.
E benché la situazione fosse molto spiacevole per me e mi sforzassi in tutti i modi di essere serio, il riso tornava impetuoso, finché mi dominò completamente. Mio padre, anche per coprire il mio contegno, domandò con la sua voce piana e sommessa: «Matilde è malata?» Il nonno sorrise in quel suo modo strano e rispose con una frase a cui io, tutto assorto in me stesso, non badai, e che suonava press’a poco così: «No, ma desidera non incontrare Cristina». E non mi accorsi che per effetto di quelle parole il mio vicino, il maggiore bruno, si era alzato mormorando delle scuse confuse e con un inchino verso il conte aveva lasciato la sala. Notai tuttavia che arrivato alla porta, alle spalle del vecchio, il maggiore si era voltato indietro e aveva fatto al piccolo Erik,e con mio grande stupore anche a me, dei cenni con la mano e col capo come per invitarci a seguirlo. Ne fui così sorpreso che il riso finì di opprimermi. Del resto non prestai attenzione al maggiore; mi era antipatico, e vidi che anche il piccolo Erik non se ne curava.
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