opera di Takato Yamamoto
da “A sud del confine,
a ovest del sole” - Haruki Murakami
(…)
Avevamo
cambiato amici, uniformi scolastiche e libri di testo. Io stesso stavo subendo
una rapida trasformazione sia nel fisico sia nella voce sia nel modo di
rapportarmi alla realtà. E man mano che ciò avveniva, anche il clima di
familiarità che prima esisteva fra noi, andava a poco a poco irrigidendosi. In
effetti, anche lei stava cambiando fisicamente e mentalmente e molto più di me.
Questo mi faceva sentire a disagio. Inoltre, avevo l’impressione che sua madre
cominciasse a poco a poco a guardarmi con occhi sospettosi, come a significare:
“Chissà perché questo ragazzino continua a venire. Eppure non abita più qui
vicino e ha cambiato anche scuola”. Forse ero io troppo sensibile, ma lo
sguardo della madre di Shimamoto mi infastidiva.
Iniziai
a diradare le mie visite e finimmo per non vederci più. Forse fu un errore.
Dico forse perché, quando si analizza
l’enorme mole dei ricordi del passato, è difficile distinguere le decisioni
giuste da quelle sbagliate. Avrei dovuto sforzarmi di continuare a coltivare la
nostra amicizia anche dopo. Avevo bisogno di lei e lei, forse, di me. Ma ero troppo orgoglioso e temevo di essere ferito.
Fu così che decisi di non vederla più. Fino a molti anni dopo.
Anche
non frequentandola più, continuai a ripensare a lei con nostalgia. Per tutto il
periodo doloroso e confuso dell’adolescenza quel caldo ricordo mi fu spesso di
incoraggiamento e di consolazione. Per lungo tempo lasciai libero un angolino
del mio cuore solo per lei, come un ristorante in cui venga, senza che nessuno
se ne accorga, un cartellino con su scritto “riservato” sul tavolo più
tranquillo e in fondo al locale. Ma sapevo che non l’avrei più vista.
Quando
l’avevo conosciuta avevo solo dodici anni e non sapevo cosa significasse
veramente desiderare una donna dal punto di vista sessuale. Quando pensavo alla
rotondità del suo seno e a ciò che nascondeva sotto la sua gonna, provavo un
interesse piuttosto indefinito, ma non capivo quale significato preciso avesse,
né come mi sarei dovuto comportare. Tendevo le orecchie, chiudevo gli occhi e
immaginavo ciò che doveva esserci in quel posto. Era un paesaggio incompleto,
in cui tutto era vago e come avvolto da una leggera foschia che sfumava i
contorni. Sentivo che all’interno di quel paesaggio doveva nascondersi qualcosa
di molto importante per me. Ne ero certo: anche Shimamoto vedeva un paesaggio
molto simile al mio.
Tutti
e due avvertivamo la presenza di una realtà che sarebbe diventata nostra e che
avrebbe colmato quel senso di incompletezza delle nostre esistenze. Una nuova
porta stava per aprirsi davanti a noi, soli sotto una vaga e flebile luce, con
le mani strettamente allacciate per dieci brevi secondi.
(…)
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