18 maggio 2018

da “A sud del confine, a ovest del sole” - Haruki Murakami

opera di Takato Yamamoto
da “A sud del confine, a ovest del sole” - Haruki Murakami
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Avevamo cambiato amici, uniformi scolastiche e libri di testo. Io stesso stavo subendo una rapida trasformazione sia nel fisico sia nella voce sia nel modo di rapportarmi alla realtà. E man mano che ciò avveniva, anche il clima di familiarità che prima esisteva fra noi, andava a poco a poco irrigidendosi. In effetti, anche lei stava cambiando fisicamente e mentalmente e molto più di me. Questo mi faceva sentire a disagio. Inoltre, avevo l’impressione che sua madre cominciasse a poco a poco a guardarmi con occhi sospettosi, come a significare: “Chissà perché questo ragazzino continua a venire. Eppure non abita più qui vicino e ha cambiato anche scuola”. Forse ero io troppo sensibile, ma lo sguardo della madre di Shimamoto mi infastidiva.
Iniziai a diradare le mie visite e finimmo per non vederci più. Forse fu un errore. Dico forse perché, quando si analizza l’enorme mole dei ricordi del passato, è difficile distinguere le decisioni giuste da quelle sbagliate. Avrei dovuto sforzarmi di continuare a coltivare la nostra amicizia anche dopo. Avevo bisogno di lei e lei, forse, di me. Ma ero troppo orgoglioso e temevo di essere ferito. Fu così che decisi di non vederla più. Fino a molti anni dopo.
Anche non frequentandola più, continuai a ripensare a lei con nostalgia. Per tutto il periodo doloroso e confuso dell’adolescenza quel caldo ricordo mi fu spesso di incoraggiamento e di consolazione. Per lungo tempo lasciai libero un angolino del mio cuore solo per lei, come un ristorante in cui venga, senza che nessuno se ne accorga, un cartellino con su scritto “riservato” sul tavolo più tranquillo e in fondo al locale. Ma sapevo che non l’avrei più vista.
Quando l’avevo conosciuta avevo solo dodici anni e non sapevo cosa significasse veramente desiderare una donna dal punto di vista sessuale. Quando pensavo alla rotondità del suo seno e a ciò che nascondeva sotto la sua gonna, provavo un interesse piuttosto indefinito, ma non capivo quale significato preciso avesse, né come mi sarei dovuto comportare. Tendevo le orecchie, chiudevo gli occhi e immaginavo ciò che doveva esserci in quel posto. Era un paesaggio incompleto, in cui tutto era vago e come avvolto da una leggera foschia che sfumava i contorni. Sentivo che all’interno di quel paesaggio doveva nascondersi qualcosa di molto importante per me. Ne ero certo: anche Shimamoto vedeva un paesaggio molto simile al mio.
Tutti e due avvertivamo la presenza di una realtà che sarebbe diventata nostra e che avrebbe colmato quel senso di incompletezza delle nostre esistenze. Una nuova porta stava per aprirsi davanti a noi, soli sotto una vaga e flebile luce, con le mani strettamente allacciate per dieci brevi secondi.
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