dipinto di Annick Bouvattier
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
22.
È, senza rimedio, una oleografia. La fisso senza sapere se la vedo. Alla vetrina ve ne sono altre, oltre quella. Si trova al centro della vetrina nel punto in cui mi nasconde il vano scala. Lei stringe la primavera al seno e mi fissa con occhi tristi. Sorride con il luccichio della carta stampata e le sue guance sono color porpora. Il cielo dietro di lei ha il colore azzurro chiaro di un tessuto. Ha una bocca disegnata e quasi piccola e, al di sopra di un’espressione da cartolina illustrata, mi fissa sempre con grande tristezza. Il braccio che regge i fiori mi ricorda quello di qualcuno. Il vestito o blusa si apre con una scollatura bordata. Gli occhi sono davvero tristi: mi fissano dal fondo della realtà litografica con una qualche verità. È giunta con la primavera. I suoi occhi tristi sono grandi, ma il motivo della loro tristezza non è questo. Mi scosto dalla vetrina facendo una grande forza sulle gambe. Attraverso la strada e mi rigiro con una ribellione impotente. Ella sorregge ancora la primavera che le hanno dato e i suoi occhi sono tristi come tutto ciò che io non ho nella vita. Osservata in lontananza, l’oleografia mostra in fondo molti più colori. La figura ha un nastro di un rosa acceso che le contorna la chioma dei capelli: non lo avevo notato. Vi è nei suoi occhi umani, seppure in litografia, qualcosa di terribile: il segno inevitabile della coscienza, il grido clandestino della presenza dell’anima. Con un grande sforzo mi ergo dal sonno in cui sono immerso e scuoto, come un cane, l’umidità della tenebra di bruma. E sopra il mio vagare solitario, in un commiato da un’altra cosa qualsiasi, gli occhi tristi della vita tutta, di questa oleografia metafisica che contempliamo a distanza, mi fissano come se io sapessi di Dio. La stampa ha un calendario alla base. È incorniciata sopra e sotto con due listelli neri appena convessi e malamente dipinti. Tra l’alto e il basso dei suoi margini, sopra il 1929 con vignetta calligraficamente obsoleta che copre l’inevitabile primo gennaio, gli occhi tristi mi sorridono ironicamente. È curioso, poi, dove avevo già notato quella figura. Nel mio ufficio, nell’angolo di fondo, c’è un calendario identico, che ho visto tante volte. Ma per un mistero, oleografico o mio, la figura identica dell’ufficio non ha gli occhi tristi. È solo un’oleografia. (È di carta lucida e dorme, sopra la testa di Alves il mancino, il suo vivere incolore). Ho voglia di sorridere di tutto questo, ma provo un grande malessere. Sento un freddo di improvvisa malattia nell’anima. Non ho la forza di ribellarmi a tutta questa assurdità. A quale finestra, a quale segreto di Dio io mi accosterei senza volerlo? Su cosa dà la vetrina del vano-scala? Quali occhi mi fissavano nell’oleografia? Sto quasi tremando. Sollevo involontariamente gli occhi verso l’angolo distante dell’ufficio dove si trova la vera oleografia. Alzo costantemente gli occhi verso quella direzio
22.
È, senza rimedio, una oleografia. La fisso senza sapere se la vedo. Alla vetrina ve ne sono altre, oltre quella. Si trova al centro della vetrina nel punto in cui mi nasconde il vano scala. Lei stringe la primavera al seno e mi fissa con occhi tristi. Sorride con il luccichio della carta stampata e le sue guance sono color porpora. Il cielo dietro di lei ha il colore azzurro chiaro di un tessuto. Ha una bocca disegnata e quasi piccola e, al di sopra di un’espressione da cartolina illustrata, mi fissa sempre con grande tristezza. Il braccio che regge i fiori mi ricorda quello di qualcuno. Il vestito o blusa si apre con una scollatura bordata. Gli occhi sono davvero tristi: mi fissano dal fondo della realtà litografica con una qualche verità. È giunta con la primavera. I suoi occhi tristi sono grandi, ma il motivo della loro tristezza non è questo. Mi scosto dalla vetrina facendo una grande forza sulle gambe. Attraverso la strada e mi rigiro con una ribellione impotente. Ella sorregge ancora la primavera che le hanno dato e i suoi occhi sono tristi come tutto ciò che io non ho nella vita. Osservata in lontananza, l’oleografia mostra in fondo molti più colori. La figura ha un nastro di un rosa acceso che le contorna la chioma dei capelli: non lo avevo notato. Vi è nei suoi occhi umani, seppure in litografia, qualcosa di terribile: il segno inevitabile della coscienza, il grido clandestino della presenza dell’anima. Con un grande sforzo mi ergo dal sonno in cui sono immerso e scuoto, come un cane, l’umidità della tenebra di bruma. E sopra il mio vagare solitario, in un commiato da un’altra cosa qualsiasi, gli occhi tristi della vita tutta, di questa oleografia metafisica che contempliamo a distanza, mi fissano come se io sapessi di Dio. La stampa ha un calendario alla base. È incorniciata sopra e sotto con due listelli neri appena convessi e malamente dipinti. Tra l’alto e il basso dei suoi margini, sopra il 1929 con vignetta calligraficamente obsoleta che copre l’inevitabile primo gennaio, gli occhi tristi mi sorridono ironicamente. È curioso, poi, dove avevo già notato quella figura. Nel mio ufficio, nell’angolo di fondo, c’è un calendario identico, che ho visto tante volte. Ma per un mistero, oleografico o mio, la figura identica dell’ufficio non ha gli occhi tristi. È solo un’oleografia. (È di carta lucida e dorme, sopra la testa di Alves il mancino, il suo vivere incolore). Ho voglia di sorridere di tutto questo, ma provo un grande malessere. Sento un freddo di improvvisa malattia nell’anima. Non ho la forza di ribellarmi a tutta questa assurdità. A quale finestra, a quale segreto di Dio io mi accosterei senza volerlo? Su cosa dà la vetrina del vano-scala? Quali occhi mi fissavano nell’oleografia? Sto quasi tremando. Sollevo involontariamente gli occhi verso l’angolo distante dell’ufficio dove si trova la vera oleografia. Alzo costantemente gli occhi verso quella direzio
Nessun commento:
Posta un commento