da “il manifesto” del 21 luglio 2018
Interni
di ministro
Querela
a Saviano, il linguaggio come un manganello
ANDREA BAJANI
La querela di un
Ministro dello Stato a un privato cittadino dice la sproporzione delle forze, prima
di tutto. Il che è di un’evidenza tale che non avrebbe bisogno di additivi in
forma di commenti.
Èlapalissiana la
violenza. Pur essendo Roberto Saviano uno scrittore e un giornalista noto in
tutto il mondo, con tutto il surplus simbolico del caso, resta un privato
cittadino.
Te la prendi con i
piccoli, si potrebbe dire se il linguaggio non fosse corrivo. Se non spettasse,
a chi parla amplificato, l’esercizio di una qualche forma di responsabilità
verso la lingua, il pensiero e dunque il vivere associato.
Quello che infatti
più colpisce, in questo che ha l’aria di un atto di violenza di Stato,non è tanto
o soltanto la querela,ma il corredo di una lingua ormai brutalizzata: il tweet mandato
a cose fatte dal Ministro, il «merda» spalmato prima di cliccare,non per espressionismo
ma per sciatteria.
O meglio, per eccesso
di normalità: il linguaggio del senso comune usato come un manganello, infatti,
fa più male, è un colpo che parte con il braccio di sessanta milioni di
persone. Il senso comune usato per colpire dice questo: parlo come tutti,
quindi colpiamo tutti insieme. È un linciaggio fatto di parole.
Quello che è in atto
in questi tempi è uno stupro di gruppo del linguaggio. Il pensiero, di cui il
linguaggio è l’espressione, resta a terra, rantola frasi deturpate, non arriva
alla fine della frase. E un pensiero violato produce un’epoca violenta, il cui
braccio armato è l’ignoranza. E l’ignoranza, come si sa, non la si toglie con il
titolo di studio.
Il punto è che
abbiamo tutti contribuito all’impoverimento del pensiero. Siamo tutti compromessi,non
vale più tirarsi indietro. È solo per codardia intellettuale che in questi anni
abbiamo infatti accettato di considerare i commenti a Facebook, abooking.com o a
Tripadvisor come nuove espressioni di democrazia. È solo per carenza di immaginazione
politica che abbiamo scambiato uno sfogatoio per un’agorà; ed è da qui che carica
il colpo il manganello del senso comune. Abbiamo accettato che un albergatore, un
ristoratore, o un cittadino potessero diventare ostaggi di una lingua modulata sul
linciaggio, di frasi e tweet con le vene gonfie per la rabbia, di «mai più»,
«andatevene a casa», «non siete neanche capace a fare i letti», «i vostri cessi
gridano vendetta», «fate schifo», e «che i nostri figli vi facciano pagare cara
l’attesa della pizza».
Abbiamo accettato che
prevalesse la semplificazione, che la dotazione linguistica primaria
di un discorso
prevedesse l’anatema e la gogna collettiva. Abbiamo accettato che la funzione
Tripadvisor, per così dire, prendesse il posto del pensiero condiviso, che
questa fosse una nuova forma di dialettica. Abbiamo trasformato la cultura in
un fatto di costume, nella partita del presenzialismo. Abbiamo trasformato il
confronto culturale in happy hour. E ora subiamo le conseguenze, di tutto questo.
Che,cioè, l’umanesimo sia condannato a definitiva archiviazione. L’umanesimo muore
nel tweet di un ministro che scrive«merda» e
manda baci dopo aver
spedito una querela a uno scrittore, a un privato cittadino. Ma muore anche a
ogni tweet di chi usa il senso comune per colpire. È morto l’umanesimo perché abbiamo
ucciso la sua lingua. Questo doppio sterminio è il nostro più grande fallimento
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