Mario Sironi Il camion giallo 1918
da La ciociara – Alberto Moravia
Quell'uomo guidava curvo sul volante che teneva con le due mani, come aggrappandosi, gli occhi fuori della testa, il viso pallido, trafelato e pieno di spavento; io ero tuttora preoccupata per il pacco di biglietti di banca che avevo in seno; e Rosetta guardava davanti a sé, con una faccia immobile e apatica in cui sarebbe stato impossibile trovare il riflesso di qualsiasi sentimento. Mi venne in mente che tutti e tre, ciascuno per i nostri motivi, non avevamo dimostrato alcuna pietà per Rosario ammazzato come un cane e poi abbandonato sulla strada maestra: l'uomo atterrito, non era neppure disceso per vedere se fosse morto o vivo; io mi ero soprattutto preoccupata di constatare che fosse morto sul serio, per via del denaro che gli avevo portato via; e Rosetta si era limitata a trascinarlo per un piede verso il fossato, come se fosse stata la carogna puzzolente e ingombrante di qualche animale. Così non c'era pietà, né commozione, né simpatia umana; un uomo moriva e gli altri uomini se ne infischiavano, ciascuno per i suoi motivi personali. Era, insomma, la guerra, come diceva Concetta, e questa guerra temevo, adesso, che si sarebbe prolungata nelle nostre anime molto dopo che la guerra vera fosse finita. Ma Rosetta era il caso peggiore dei tre: non più di mezz'ora prima, lei ci aveva fatto l'amore con Rosario; aveva suscitato la sua voglia e l'aveva soddisfatta; aveva dato e ricevuto piacere da lui; e adesso sedeva a ciglio asciutto, immobile, indifferente, apatica, senz'ombra di sentimento sopra il viso. Pensavo queste cose; e mi dicevo che tutto andava all'incontrario di come avrebbe dovuto andare e tutta la vita era diventata assurda, senza capo né coda, e le cose importanti non erano più importanti e quelle che non avevano importanza erano diventate importanti. Poi, tutto ad un tratto, avvenne un fatto strano che non avevo preveduto: Rosetta che, sinora, come ho detto, non aveva mostrato alcun sentimento, incominciò a cantare. Prima con voce esitante e come strangolata, poi chiarendosi e affermandosi la voce, in maniera più sicura, prese a cantare la stessa canzone che io le avevo chiesto di cantare poco prima e lei, sentendosi incapace, aveva
interrotto alla prima strofa. Era una canzonetta di moda un paio d'anni avanti e Rosetta era solita cantarla, come ho già detto, accudendo alle faccende domestiche; non era gran che, anzi era alquanto sentimentale e sciocca, e io pensai dapprima che era strano che la cantasse proprio adesso, dopo la morte di Rosario: una prova di più della sua insensibilità e della sua indifferenza. Ma poi mi ricordai che quando le avevo chiesto di cantare, lei aveva risposto che non ne era capace perché si sentiva come svogliata; e rammentai pure di aver pensato che lei era proprio cambiata e non poteva più cantare perché non era più quella di una volta; e d'improvviso mi dissi che lei, forse, riprendendo a cantare, intendesse farmi capire che non era vero che fosse cambiata, che lei, invece, era sempre la Rosetta di una volta, buona, dolce e innocente come un angiolo. Infatti, mentre pensavo queste cose, la guardai e vidi allora che aveva gli occhi pieni di lacrime; e queste lacrime sgorgavano dai suoi occhi spalancati e scivolavano giù per le guance; e fui ad un tratto del tutto sicura: lei non era cambiata, come avevo temuto; quelle lacrime lei le piangeva per Rosario, prima di tutto, che era stato ammazzato senza pietà, come un cane, e poi per se stessa e per me e per tutti coloro che la guerra aveva colpito, massacrato e stravolto; e questo voleva dire che non soltanto lei non era, in fondo, cambiata ma neppure io che avevo rubato il denaro di Rosario né tutti coloro che la guerra, per tutto il tempo che era durata, aveva reso simile a se stessa. D'improvviso mi sentii tutta consolata; e da questa consolazione, sgorgò spontaneo il pensiero: "Appena a Roma, rimanderò questo denaro alla madre di Rosario." Senza dir nulla, passai un braccio sotto il braccio a Rosetta e le strinsi la mano nella mia.
Lei cantò più e più volte quella canzone mentre la macchina correva alla volta di Velletri; e poi, quando le lacrime cessarono di sgorgare dai suoi occhi, cessò di cantare. Quell'uomo del camion, che non era cattivo ma soltanto spaventato, forse capì qualche cosa perché domandò ad un tratto: "Chi era per voi quel giovanotto che è stato ammazzato?" Io mi affrettai a rispondere: "Non era niente, un conoscente, un borsaro nero che ci aveva offerto di portarci a Roma." Ma lui, ripreso improvvisamente dalla paura, soggiunse in fretta: "Non dirmi niente, non voglio sapere niente, non so nulla e non ho visto nulla, a Roma ci lasciamo e io farò come se non vi avessi mai viste né conosciute." Io dissi: "Sei tu che me l'hai chiesto." E lui: "Sì, hai ragione, ma come non detto, come non detto."
Finalmente, ecco apparire in fondo alla pianura distesa e verde, una lunga striscia di colore incerto, tra il bianco e il giallo; i sobborghi di Roma. E dietro questa striscia, sovrastandola, grigia sullo sfondo del cielo grigio, lontanissima, eppure chiara, la cupola di San Pietro. Dio sa se avevo sperato durante tutto l'anno di rivedere, laggiù all'orizzonte, quella cara cupola, così piccola e al tempo stesso così grande da potere essere quasi scambiata per un accidente del terreno, per una collina o una montagnola; così solida benché non più che un'ombra; così rassicurante perché familiare e mille volte vista ed osservata. Quella cupola, per me, non era soltanto Roma ma la mia vita di Roma, la serenità dei giorni che si vivono in pace con se stessi e con gli altri. Laggiù, in fondo all'orizzonte, quella cupola mi diceva che io potevo ormai tornare fiduciosa a casa e la vecchia vita avrebbe ripreso il suo corso, pur dopo tanti cambiamenti e tante tragedie. Ma anche mi diceva che questa fiducia tutta nuova, io la dovevo a Rosetta e al suo canto e alle sue lacrime. E che senza quel dolore di Rosetta, a Roma non ci sarebbero arrivate le due donne senza colpa che ne erano partite un anno prima, bensì una ladra e una prostituta, quali, appunto, attraverso la guerra e a causa della guerra, erano diventate.
Il dolore. Mi tornò in mente Michele che non era con noi in questo momento tanto sospirato del ritorno e non sarebbe mai più stato con noi; e ricordai quella sera che aveva letto ad alta voce, nella capanna a Sant'Eufemia, il passo del Vangelo su Lazzaro; e si era
tanto arrabbiato con i contadini che non avevano capito niente ed aveva gridato che eravamo tutti morti, in attesa della resurrezione, come Lazzaro. Allora queste parole di Michele mi avevano lasciata incerta; adesso, invece, capivo che Michele aveva avuto ragione; e che per qualche tempo eravamo state morte anche noi due, Rosetta ed io, morte alla pietà che si deve agli altri e a se stessi. Ma il dolore ci aveva salvate all'ultimo momento; e così, in certo modo, il passo di Lazzaro era buono anche per noi, poiché, grazie al dolore, eravamo alla fine, uscite dalla guerra che ci chiudeva nella sua tomba di indifferenza e di malvagità ed avevamo ripreso a camminare nella nostra vita, la quale era forse una povera cosa piena di oscurità e di errore, ma pur tuttavia la sola che dovessimo vivere, come senza dubbio Michele ci avrebbe detto se fosse stato con noi.
Quell'uomo guidava curvo sul volante che teneva con le due mani, come aggrappandosi, gli occhi fuori della testa, il viso pallido, trafelato e pieno di spavento; io ero tuttora preoccupata per il pacco di biglietti di banca che avevo in seno; e Rosetta guardava davanti a sé, con una faccia immobile e apatica in cui sarebbe stato impossibile trovare il riflesso di qualsiasi sentimento. Mi venne in mente che tutti e tre, ciascuno per i nostri motivi, non avevamo dimostrato alcuna pietà per Rosario ammazzato come un cane e poi abbandonato sulla strada maestra: l'uomo atterrito, non era neppure disceso per vedere se fosse morto o vivo; io mi ero soprattutto preoccupata di constatare che fosse morto sul serio, per via del denaro che gli avevo portato via; e Rosetta si era limitata a trascinarlo per un piede verso il fossato, come se fosse stata la carogna puzzolente e ingombrante di qualche animale. Così non c'era pietà, né commozione, né simpatia umana; un uomo moriva e gli altri uomini se ne infischiavano, ciascuno per i suoi motivi personali. Era, insomma, la guerra, come diceva Concetta, e questa guerra temevo, adesso, che si sarebbe prolungata nelle nostre anime molto dopo che la guerra vera fosse finita. Ma Rosetta era il caso peggiore dei tre: non più di mezz'ora prima, lei ci aveva fatto l'amore con Rosario; aveva suscitato la sua voglia e l'aveva soddisfatta; aveva dato e ricevuto piacere da lui; e adesso sedeva a ciglio asciutto, immobile, indifferente, apatica, senz'ombra di sentimento sopra il viso. Pensavo queste cose; e mi dicevo che tutto andava all'incontrario di come avrebbe dovuto andare e tutta la vita era diventata assurda, senza capo né coda, e le cose importanti non erano più importanti e quelle che non avevano importanza erano diventate importanti. Poi, tutto ad un tratto, avvenne un fatto strano che non avevo preveduto: Rosetta che, sinora, come ho detto, non aveva mostrato alcun sentimento, incominciò a cantare. Prima con voce esitante e come strangolata, poi chiarendosi e affermandosi la voce, in maniera più sicura, prese a cantare la stessa canzone che io le avevo chiesto di cantare poco prima e lei, sentendosi incapace, aveva
interrotto alla prima strofa. Era una canzonetta di moda un paio d'anni avanti e Rosetta era solita cantarla, come ho già detto, accudendo alle faccende domestiche; non era gran che, anzi era alquanto sentimentale e sciocca, e io pensai dapprima che era strano che la cantasse proprio adesso, dopo la morte di Rosario: una prova di più della sua insensibilità e della sua indifferenza. Ma poi mi ricordai che quando le avevo chiesto di cantare, lei aveva risposto che non ne era capace perché si sentiva come svogliata; e rammentai pure di aver pensato che lei era proprio cambiata e non poteva più cantare perché non era più quella di una volta; e d'improvviso mi dissi che lei, forse, riprendendo a cantare, intendesse farmi capire che non era vero che fosse cambiata, che lei, invece, era sempre la Rosetta di una volta, buona, dolce e innocente come un angiolo. Infatti, mentre pensavo queste cose, la guardai e vidi allora che aveva gli occhi pieni di lacrime; e queste lacrime sgorgavano dai suoi occhi spalancati e scivolavano giù per le guance; e fui ad un tratto del tutto sicura: lei non era cambiata, come avevo temuto; quelle lacrime lei le piangeva per Rosario, prima di tutto, che era stato ammazzato senza pietà, come un cane, e poi per se stessa e per me e per tutti coloro che la guerra aveva colpito, massacrato e stravolto; e questo voleva dire che non soltanto lei non era, in fondo, cambiata ma neppure io che avevo rubato il denaro di Rosario né tutti coloro che la guerra, per tutto il tempo che era durata, aveva reso simile a se stessa. D'improvviso mi sentii tutta consolata; e da questa consolazione, sgorgò spontaneo il pensiero: "Appena a Roma, rimanderò questo denaro alla madre di Rosario." Senza dir nulla, passai un braccio sotto il braccio a Rosetta e le strinsi la mano nella mia.
Lei cantò più e più volte quella canzone mentre la macchina correva alla volta di Velletri; e poi, quando le lacrime cessarono di sgorgare dai suoi occhi, cessò di cantare. Quell'uomo del camion, che non era cattivo ma soltanto spaventato, forse capì qualche cosa perché domandò ad un tratto: "Chi era per voi quel giovanotto che è stato ammazzato?" Io mi affrettai a rispondere: "Non era niente, un conoscente, un borsaro nero che ci aveva offerto di portarci a Roma." Ma lui, ripreso improvvisamente dalla paura, soggiunse in fretta: "Non dirmi niente, non voglio sapere niente, non so nulla e non ho visto nulla, a Roma ci lasciamo e io farò come se non vi avessi mai viste né conosciute." Io dissi: "Sei tu che me l'hai chiesto." E lui: "Sì, hai ragione, ma come non detto, come non detto."
Finalmente, ecco apparire in fondo alla pianura distesa e verde, una lunga striscia di colore incerto, tra il bianco e il giallo; i sobborghi di Roma. E dietro questa striscia, sovrastandola, grigia sullo sfondo del cielo grigio, lontanissima, eppure chiara, la cupola di San Pietro. Dio sa se avevo sperato durante tutto l'anno di rivedere, laggiù all'orizzonte, quella cara cupola, così piccola e al tempo stesso così grande da potere essere quasi scambiata per un accidente del terreno, per una collina o una montagnola; così solida benché non più che un'ombra; così rassicurante perché familiare e mille volte vista ed osservata. Quella cupola, per me, non era soltanto Roma ma la mia vita di Roma, la serenità dei giorni che si vivono in pace con se stessi e con gli altri. Laggiù, in fondo all'orizzonte, quella cupola mi diceva che io potevo ormai tornare fiduciosa a casa e la vecchia vita avrebbe ripreso il suo corso, pur dopo tanti cambiamenti e tante tragedie. Ma anche mi diceva che questa fiducia tutta nuova, io la dovevo a Rosetta e al suo canto e alle sue lacrime. E che senza quel dolore di Rosetta, a Roma non ci sarebbero arrivate le due donne senza colpa che ne erano partite un anno prima, bensì una ladra e una prostituta, quali, appunto, attraverso la guerra e a causa della guerra, erano diventate.
Il dolore. Mi tornò in mente Michele che non era con noi in questo momento tanto sospirato del ritorno e non sarebbe mai più stato con noi; e ricordai quella sera che aveva letto ad alta voce, nella capanna a Sant'Eufemia, il passo del Vangelo su Lazzaro; e si era
tanto arrabbiato con i contadini che non avevano capito niente ed aveva gridato che eravamo tutti morti, in attesa della resurrezione, come Lazzaro. Allora queste parole di Michele mi avevano lasciata incerta; adesso, invece, capivo che Michele aveva avuto ragione; e che per qualche tempo eravamo state morte anche noi due, Rosetta ed io, morte alla pietà che si deve agli altri e a se stessi. Ma il dolore ci aveva salvate all'ultimo momento; e così, in certo modo, il passo di Lazzaro era buono anche per noi, poiché, grazie al dolore, eravamo alla fine, uscite dalla guerra che ci chiudeva nella sua tomba di indifferenza e di malvagità ed avevamo ripreso a camminare nella nostra vita, la quale era forse una povera cosa piena di oscurità e di errore, ma pur tuttavia la sola che dovessimo vivere, come senza dubbio Michele ci avrebbe detto se fosse stato con noi.
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