1 marzo 2020

il prete bello - Goffredo Parise

il prete bello - Goffredo Parise
Un dottore giovane passò dopo qualche tempo a guardarlo e allora, piano, timidamente, chiesi a lui cosa era successo.
«Sei un fratello?» mi chiese.
«Sono un suo amico.»
Mi guardò considerando i miei vestiti, i miei occhi e i miei sandali di gomma rossa slabbrati.
«E' quello che era in riformatorio. A Venezia» disse come per assicurarsi se lo conoscevo.
«Sì, signore.»
«E' scappato ieri. E arrivato fin qui con un camion, poi, scendendo, s'è preso sotto con una gamba. Sembrava che volesse fuggire quando il camion lo ha investito. Il camionista ha detto che si è buttato fuori dallo sportello.»
«Che cosa si è fatto?»
«Ha perso una gamba. Abbiamo dovuto amputarla, ma sta male lo stesso» aggiunse laconicamente.
«Quanti anni hai?» mi chiese ad un tratto. La sua voce non era severa, sentivo che era piena di curiosità e di compassione.
«Quasi undici.»
Si frugò in tasca, mi porse una caramella e io la tenni in mano, imbarazzato.
«Non ti piace? Non la mangi?»
«Per dopo» cercai di spiegare con un sorriso.
Allora mi accorsi che comprese com'era inutile regalare a me una caramella.
«Conosci i suoi? La madre, il padre, voglio dire?»
«Sì. Me l'ha detto sua mamma, che Cena era qui; suo padre è morto.»
«Cena?»
«Si chiama così.»
«Abbiamo fatto avvertire i suoi, ma non si è fatto vivo nessuno. Ha altri parenti?»
«Non lo so. Aveva uno zio, che conoscevo, ma è morto anche quello.»
Fece una pausa e poi domandò, come un confessore pettegolo:
«Il ladro?».
Non risposi e non volli guardarlo per paura che insistesse, obbligandomi così a rispondere.
Guardai Cena che respirava lento e cercai di vedere dove gli mancava la gamba; non fu facile accorgermi che sotto le lenzuola c'era un solo magro rigonfiamento che si piegava ad angolo sulla sinistra; dall'altra parte il rigonfiamento al di sotto del busto era voluminoso come se avesse tenuto piegato un ginocchio.
Rimasi seduto sul seggiolino accanto a lui quasi due ore; ogni tanto guardavo qua e là se non c'erano medici e infermieri e solo allora mi avvicinavo a lui, lo scuotevo e lo chiamavo per nome:
«Cena! Cena!».
Cena si muoveva lamentandosi, apriva a mezzo gli occhi e la bocca senza rispondere: provai a tenergli aperti gli occhi con le dita ma anche in quel modo non si svegliò. Dopo due ore tornò il dottore e gli mise il termometro. Era quasi sera, non avevano ancora acceso le luci, e attraverso i vetri potevo vedere i campi al di là dell'ospedale invasi dalla nebbia e in mezzo ad essi il corso d'acqua profondo dove noi si andava a nuotare e a pescare di frodo con le cariche che l'armaiolo ci forniva in cambio di pesci. Uscii dall'ospedale e girai per quei campi, solo, affondando i sandali nel fango.
Seguii il canale e di tanto in tanto lo scrutavo con la lampadina lungo gli argini melmosi, e in mezzo alle canne, cercando con gli occhi anguille, carpe o altri animali che mi tenessero compagnia.
Andai all'ospedale per due giorni di seguito ed ero là dalla mattina alla sera. Al secondo giorno, Cena era sveglio ma aveva ancora molta febbre e faticava a parlare.
Delirava. Quantunque avessero amputata la gamba proprio all'attaccatura del busto, era sopraggiunta la cancrena. Molto spesso il dottore arrivava con una suora e gli faceva delle grosse punture di jodio per endovena nel tentativo di arrestare l'avvelenamento, ma il viso di Cena era diventato di un viola livido.
Aveva ripreso conoscenza quella mattina stessa, appena io ero arrivato, verso le sei. Aprì gli occhi, vide me e disse:
«Ostia, ostia, che male, Sergio!».
Era venuta con me anche sua madre ma l'avevano fatta uscire subito; era ubriaca fradicia e in presenza del dottore aveva tirato fuori una bottiglietta di grappa.
«Alla salute di Cena!» aveva esclamato e si era messa a bere dalla bottiglia.
Arrivarono mia mamma, la naia al completo e Fedora, ma Cena il poco fiato che aveva lo teneva solo per me.
«Hai visto che sono scappato?» mi diceva continuamente. «Con una gamba sola si va meglio a chiedere la carità!»
Poi restava senza respiro come se avesse compiuto un grande sforzo.
Verso sera venne il prete. Cena si lasciò ungere senza dire niente e poi mentre il prete pregava con le due monache ai lati che rispondevano «ora pro nobis», alla luce del crepuscolo nebbioso di un rosa di bambole da banchi ambulanti, di granatina di ricreatori parrocchiali, Cena, piano, senza farsi scorgere da nessuno perché era nostra legge vergognarsi, si mise a piangere.
«Mamma, mamma mia» disse; Cena domandava mamma e non poteva avere neppure quella; certo la mamma che lui chiamava non era quella che lui aveva conosciuto, non la sua, ma un'altra. Piangendo guardava fuori dalle vetrate con i suoi occhi innocenti dove non c'era furto, né coltello che aveva ucciso, né ladrocinio, né incoscienza, né criminalità. Guardava quel rosa granatina, che era ormai una striscia, perdersi in un lungo filo d'orizzonte che comprendeva i campi, il canale con le anguille e le carpe, il cimitero degli ebrei dove sotto una vecchia lapide abbandonata c'era stato uno dei nostri nascondigli. Guardava tutto questo e nei suoi occhi a un certo momento apparve una Legnano da corsa nuova fiammante; guardava e pregava anche per avere una vita migliore in questo mondo e in mezzo agli uomini più grandi e più fortunati di lui e proprio mentre stava passando in rassegna tutte queste cose sulla sua nuova bicicletta, questa si alzò, e Cena, rifiuto di riformatorio, ladro e miserabile a dodici anni, abbandonò con essa le strade di questa terra.

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