The National Library of Finland, Helsinki
da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges.
Nella versione del 1934 - quella che ho sott’occhio - il romanzo scade ad allegoria: Almotasim è l’emblema di Dio, e i puntuali itinerari del protagonista corrispondono scopertamente ai progressi di un’anima nell’ascesa mistica. Non mancano i dettagli affliggenti: un giudeo negro di Kochin che parla di Almotasim dice che ha la pelle scura; un cristiano lo immagina sopra una torre con le braccia aperte, un lama rosso lo ricorda seduto, “simile a quest’immagine di manteca di yak che modellai e adorai nel monastero di Tashilhunpo”. Queste notazioni vorrebbero introdurre un Dio unitario che s’accomoda delle diseguaglianze degli uomini. L’idea, a mio parere, è poco stimolante. Non dirò lo stesso d’un’altra idea, o congettura: quella che lo stesso Onnipotente sia in cerca di Qualcuno, e questo Qualcuno di Qualcun’ Altro superiore (o comunque imprescindibile, anche se uguale), e così di seguito fino alla Fine - o meglio, al Senza fine - del Tempo, o in forma ciclica. Almotasim (nome di quell’ottavo Abbaside che vinse otto battaglie e generò otto maschi e otto femmine, lasciò ottomila schiavi e regnò otto anni, otto lune e otto giorni) significa etimologicamente il cercatore di rifugio. Nella versione del 1932, il fatto che la meta del pellegrinaggio fosse un altro pellegrinaggio rendeva felicemente ragione della difficoltà di raggiungerla; in quella del 1934, lo stesso fatto dà luogo alla teologia stravagante di cui s’è parlato. Mir Bahadur Alí, l’abbiamo visto, è incapace di sottrarsi alla più goffa delle tentazioni dell’artista: quella di essere un genio. Rileggendo ciò che ho scritto, temo di non aver messo in sufficiente risalto i meriti del libro. Vi sono tratti molto fini: per esempio, una certa disputa del capitolo XIX in cui s’indovina un amico di Almotasim nel contendente che non ribatte i sofismi dell’altro “per non aver ragione in modo trionfale”.
È opinione comune che derivare da un libro antico, per un libro attuale, sia cosa di molto merito; forse perchè non piace a nessuno (come disse Johnson) dovere qualcosa ai propri contemporanei. I ripetuti ma insignificanti contatti delI’Ulysses di Joyce con l’Odissea omerica continuano a suscitare - non capirò mai perché - l’attonita ammirazione della critica; quelli del romanzo di Bahadur con il venerato Colloquio degli uccelli di Farid ud-din Attar riscuotono il non meno misterioso applauso di Londra, e anche di Calcutta e Allahabad. Non mancano altre derivazioni. Alcuni hanno rilevato certe analogie tra la prima scena del romanzo e il racconto di Kipling On the City Wall; Bahadur le riconosce, ma aggiunge che sarebbe ben strano se due descrizioni della decima notte di muharram non coincidessero… Eliot, con più ragione, ricorda i settanta canti dell’incompleta allegoria The Faërie Queene, in cui - com’è osservato in una nota di Richard William Churci (Spencer, 1879) - l’eroina, Gloriana, non compare neppure una volta. Io, con tutta modestia, segnalo un precursore lontano e possibile: il cabalista di Gerusalemme, Isaac Luria, che predicò la dottrina dellà Ibbûr, ossia dell’anima di un maestro o antenato che s’infonde nell’anima di uno sventurato, per confortarlo e istruirlo.
Nella versione del 1934 - quella che ho sott’occhio - il romanzo scade ad allegoria: Almotasim è l’emblema di Dio, e i puntuali itinerari del protagonista corrispondono scopertamente ai progressi di un’anima nell’ascesa mistica. Non mancano i dettagli affliggenti: un giudeo negro di Kochin che parla di Almotasim dice che ha la pelle scura; un cristiano lo immagina sopra una torre con le braccia aperte, un lama rosso lo ricorda seduto, “simile a quest’immagine di manteca di yak che modellai e adorai nel monastero di Tashilhunpo”. Queste notazioni vorrebbero introdurre un Dio unitario che s’accomoda delle diseguaglianze degli uomini. L’idea, a mio parere, è poco stimolante. Non dirò lo stesso d’un’altra idea, o congettura: quella che lo stesso Onnipotente sia in cerca di Qualcuno, e questo Qualcuno di Qualcun’ Altro superiore (o comunque imprescindibile, anche se uguale), e così di seguito fino alla Fine - o meglio, al Senza fine - del Tempo, o in forma ciclica. Almotasim (nome di quell’ottavo Abbaside che vinse otto battaglie e generò otto maschi e otto femmine, lasciò ottomila schiavi e regnò otto anni, otto lune e otto giorni) significa etimologicamente il cercatore di rifugio. Nella versione del 1932, il fatto che la meta del pellegrinaggio fosse un altro pellegrinaggio rendeva felicemente ragione della difficoltà di raggiungerla; in quella del 1934, lo stesso fatto dà luogo alla teologia stravagante di cui s’è parlato. Mir Bahadur Alí, l’abbiamo visto, è incapace di sottrarsi alla più goffa delle tentazioni dell’artista: quella di essere un genio. Rileggendo ciò che ho scritto, temo di non aver messo in sufficiente risalto i meriti del libro. Vi sono tratti molto fini: per esempio, una certa disputa del capitolo XIX in cui s’indovina un amico di Almotasim nel contendente che non ribatte i sofismi dell’altro “per non aver ragione in modo trionfale”.
È opinione comune che derivare da un libro antico, per un libro attuale, sia cosa di molto merito; forse perchè non piace a nessuno (come disse Johnson) dovere qualcosa ai propri contemporanei. I ripetuti ma insignificanti contatti delI’Ulysses di Joyce con l’Odissea omerica continuano a suscitare - non capirò mai perché - l’attonita ammirazione della critica; quelli del romanzo di Bahadur con il venerato Colloquio degli uccelli di Farid ud-din Attar riscuotono il non meno misterioso applauso di Londra, e anche di Calcutta e Allahabad. Non mancano altre derivazioni. Alcuni hanno rilevato certe analogie tra la prima scena del romanzo e il racconto di Kipling On the City Wall; Bahadur le riconosce, ma aggiunge che sarebbe ben strano se due descrizioni della decima notte di muharram non coincidessero… Eliot, con più ragione, ricorda i settanta canti dell’incompleta allegoria The Faërie Queene, in cui - com’è osservato in una nota di Richard William Churci (Spencer, 1879) - l’eroina, Gloriana, non compare neppure una volta. Io, con tutta modestia, segnalo un precursore lontano e possibile: il cabalista di Gerusalemme, Isaac Luria, che predicò la dottrina dellà Ibbûr, ossia dell’anima di un maestro o antenato che s’infonde nell’anima di uno sventurato, per confortarlo e istruirlo.
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